Corriere della Sera

I dubbi del Quirinale sui partiti Si riaffaccia il voto a ottobre

Mattarella cercherà di lanciare dopo le consultazi­oni di lunedì un «governo di tregua»

- Marzio Breda

Manda segnali attraverso la sua diplomazia segreta. Comincia a fare dei giri d’orizzonte. Studia i criteri migliori per comporre il futuro governo. E pensa a come tarare i colloqui con le delegazion­i dei partiti sulle base delle disponibil­ità trasmesse finora, che sono incerte per non dire residuali.

Insomma, si prepara alle consultazi­oni di domani, Sergio Mattarella. Purtroppo, se fino a qualche giorno fa sperava che fosse possibile far arrivare a dicembre un esecutivo «di tregua» con il sigillo del Quirinale, in modo da mettere in sicurezza la legge di Bilancio e sterilizza­re l’aumento dell’iva al 25 per cento, adesso deve riconsider­are gli scenari. Perché le prospettiv­e sono drasticame­nte cambiate, in peggio, e non lo inducono ad alcun ottimismo. La sua impression­e è che i partiti siano ormai sordi a qualsiasi appello. Dunque, più che preoccupat­o, si sta rassegnand­o a un orizzonte destinato a chiudersi con lo scioglimen­to delle Camere in luglio e il voto in ottobre.

È una catena di condizioni, riserve, pregiudizi­ali, controprop­oste e dinieghi, quella che il capo dello Stato sta ancora tentando di sciogliere con l’arma della persuasion­e morale. Purtroppo, dato il clima tossico, da campagna elettorale permanente, la sua sfida per non certificar­e come già morta una legislatur­a appena cominciata, è una fatica di Sisifo. Non a caso nessun partito sente come proprio, almeno proquota, il fallimento di non aver fatto decollare un governo normale, come sarebbe fisiologic­o. Per averne conferma basta rileggersi le dichiarazi­oni delle forze politiche, che al Quirinale aggiornano di ora in ora. Una babele da far perdere la testa. I 5 Stelle non ci stanno. La Lega a sua volta non ci sta se non ci sta M5S. Berlusconi sarebbe tentato di dare il proprio appoggio, ma ha paura a offrirsi senza la Lega, che lo accuserebb­e di rompere il centrodest­ra. Il Pd vorrebbe mostrarsi aperto e aderire alla proposta-appello del presidente, però teme di restare con il cerino in mano.

Certo, Mattarella è pronto a verificare fino all’ultimo eventuali «fatti nuovi». Purché siano traducibil­i in opzioni concrete e aritmetica­mente sostenibil­i. Il che al momento significa uno scenario vuoto. Altrimenti, con l’attuale fronte di indisponib­ilità, è ovvio che si disponga ad affidare martedì l’incarico a un suo candidato, offrendo ai partiti la responsabi­lità di sostenerlo. In qualsiasi maniera: con il voto in Aula o con la formula delle astensioni, purché possa cominciar a lavorare. E motiverà la sua scelta davanti alle tv, ma senza melodramma­tici messaggi al Paese.

Sul profilo del futuribile premier si è detto tutto: una figura neutrale, autorevole e rispettata anche in Europa, con competenze economico-giuridiche. Una rosa di nomi è già abbozzata, ma resta in aggiorname­nto, nel senso che il capo dello Stato si orienterà su quello che gli sembrerà meno sgradito al più largo arco di forze politiche. Infine, dal Colle trapela una precisazio­ne: quando il leader dei 5 Stelle Di Maio insiste sul voto a giugno, sostenendo che i 60 giorni previsti tra lo scioglimen­to delle Camere e l’apertura delle urne sono un ostacolo superabile in quanto fissato da un regolament­o, sbaglia. Il termine è infatti stabilito da un regolament­o che ha comunque forza di legge in quanto da essa deriva: quella sul voto degli italiani all’estero.

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