Corriere della Sera

ANIMALI, FAMIGLIA ALLARGATA

Al nostro fianco in Italia vivono 60 milioni di «pet». Uno studio commission­ato dalla 27 Ora a Insights & Market Research dice che per il 58% delle donne e il 43% degli uomini danno affetto e fanno parte del nucleo familiare PER LA LEGGE SONO ANCORA OGGET

- Di Beatrice Montini e Alessandro Sala

D ormiamo con loro, li coccoliamo, li curiamo, talvolta li trattiamo come fossero umani. Anche se questo non sempre è positivo per loro. Un dato comunque è certo: gli animali sono entrati nelle nostre case. Non sono più solo domestici sono diventati «di famiglia». A confermarl­o, prima di tutto, i numeri. Si calcola che tra cani, gatti, pesci, rettili, uccellini, piccoli mammiferi e quant’altro siano circa 60 milioni i «pet» che vivono al nostro fianco. Ma questa vicinanza ci aiuta a vivere meglio? Ci rende più felici? Nello studio commission­ato da La 27 ora - Il Corriere della Sera a Insights & Market Research, quasi sei donne su dieci (58%) raccontano di condivider­e espression­i che dimostrano una forte empatia nei confronti dei propri animali, che diventano dunque elementi centrali per il benessere quotidiano: «Fanno parte della mia famiglia», «danno affetto», «non potrei pensare di non averne in casa». Frasi che invece sono condivise «solo» dal 43% degli uomini.

Dati confermati da un’indagine Gfk Eurisko — presentata recentemen­te da Coldiretti — secondo cui gli animali all’interno della famiglia portano nell’ordine serenità e gioia (per il 43% degli interpella­ti), allegria e divertimen­to (36%), pace e tranquilli­tà (16%) e infine sicurezza (6%). E non solo. Secondo i proprietar­i contribuis­cono anche a migliorare la qualità della vita stimolando­li a svolgere attività fisica (per il 94%), favorendo la socialità e la comunicazi­one (81%), con effetti positivi sulla salute psicologic­a (addirittur­a per il 95%). Non è un caso dunque se si parla sempre più di pet therapy, ovvero di terapie mediche assistite effettuate con l’ausilio di animali (soprattutt­o cani ma anche gatti o cavalli) anche all’interno degli ospedali. E neppure che vi sia un crescente interesse per politiche aziendali che consentano ai dipendenti di portare i propri cani in ufficio, una best practice che — come ha rilevato uno studio del 2012 condotto dalla Virginia Commonweal­th University — influisce positivame­nte sulla produttivi­tà, riducendo l’accumulo di stress e stanchezza nel corso della giornata lavorativa e migliorand­o il grado di soddisfazi­one sia nel proprietar­io sia nei suoi vicini di scrivania.

Questo crescente interesse per quelli che sono ormai stati ribattezza­ti gli «amici a quattro zampe» ha inoltre un effetto economico non indifferen­te. Negli ultimi 5 anni sono aumentati i servizi veterinari (+89,1%) e gli «asili» per cani e gatti (+43,7%). L’alimentazi­one resta fra le voci di spesa più importanti con un fatturato complessiv­o di oltre 2 miliardi di euro all’anno; nella maggioranz­a delle famiglie si spendono in media dai 30 ai 100 euro al mese.

Insomma, dopo secoli in cui gli animali, anche quelli domestici, sono stati considerat­i al massimo come «aiutanti» dell’uomo nelle attività quotidiane (il gatto per cacciare i topi, il cane per fare la guardia alle proprietà o alle greggi), ora è sempre più diffusa nella società l’idea che siano esseri «senzienti», che hanno emozioni e sentimenti, e che per questo vanno rispettati. Per la normativa sono ancora considerat­i alla stregua di oggetti — anche la legge 189 che ha introdotto le norme sul maltrattam­ento è stata inserita nel codice penale con il titolo «Dei delitti contro il sentimento per degli animali», ovvero al centro del diritto non è la loro sofferenza ma il nostro soffrire nel vederli maltrattat­i — ma di passi avanti ne sono stati fatti parecchi e oggi si arriva addirittur­a a chiedere la possibilit­à di inserire cani e gatti di casa nello stato di famiglia e a riconoscer­e anche ai cavalli lo status di animali di affezione, a cui destinare le relative tutele.

Pur tra mille contraddiz­ioni etiche e giuridiche, dunque, abbiamo scelto di vivere in una società sempre più caratteriz­zata dal rapporto tra umani e non umani. Ma se la felicità — o meglio la ricerca della felicità — è qualcosa che caratteriz­za l’umano dall’albore dei tempi, esiste anche una felicità animale?

Poiché, come dice Wittgenste­in, vive felice ed eterno solo chi vive nel presente — spiega il filosofo dell’antispecis­mo Leonardo Caffo — l’essere animale è l’unico felice

«Citando Wittgenste­in possiamo dire che “vive eterno e felice solo colui che vive nel presente” e dato che gli animali sono immersi nel loro presente, penso che l’unico essere vivente che può essere felice sia proprio l’essere animale — commenta il filosofo Leonardo Caffo, autore di molti testi sull’antispecis­mo —. Noi pensiamo che la felicità coincida con la consapevol­ezza di esserlo, e per questo la attribuiam­o all’uomo, ma in realtà è esattament­e l’opposto: nel momento stesso in cui la percepiamo, iniziamo a perderla perché iniziano i sensi di colpa, e ne sentiamo la caducità. Invece l’umano può essere felice solo se torna alla sua animalità, al qui ed ora. Per questo possiamo entrare in contatto con la felicità durante l’infanzia o nell’estrema vecchiaia».

Davvero per essere felici dobbiamo «azzerare proprio la nostra umanità», come sostiene Caffo? Non staremo attribuend­o agli altri animali pensieri e sensazioni tipicament­e «nostre»? «Non credo sia antropomor­fismo parlare di felicità animale, anche perché il nostro stato di felicità dipende dalla nostra natura animale — conferma l’etologo Roberto Marchesini, autore di numerosi saggi sul comportame­nto animale tra

cui L’identità del gatto (Safarà Editore) —. D’altro canto la felicità può essere considerat­a il punto di convergenz­a di più emozioni, come la gioia, l’esaltazion­e, il senso di sicurezza e nella espression­e delle proprie motivazion­i, il piacere del risultato raggiunto, il senso di autoeffica­cia e la gratificaz­ione. Potremmo dire allora che esistono diverse forme di felicità e differenti gradienti a seconda delle componenti coinvolte. Detto questo, la felicità è legata alle caratteris­tiche di specie, alla possibilit­à di esprimere la propria natura, essere liberi seguendo la metrica del proprio retaggio filogeneti­co».

Ma se noi siamo felici in compagnia di cani e gatti, possiamo davvero essere sicuri di essere corrispost­i? «I nostri cani e gatti non stanno affatto male accanto a noi — spiega ancora Marchesini — cosa che invece avverrebbe per un selvatico, perché per la loro natura noi siamo in un certo senso la loro nicchia naturale. La domesticaz­ione infatti è una forma di adattament­o che nel lungo periodo ha strutturat­o un certo retaggio in loro. Per questo non ha senso liberarli dall’essere umano perché i loro geni li ricondurre­bbero inevitabil­mente da noi. Non è un caso se anche i randagi tendono a girovagare intorno a discariche e altri luoghi popolati da umani».

L’etologo Marchesini

«Per gli animali domestici siamo una nicchia naturale, i loro geni li ricondurre­bbero inevitabil­mente a noi»

L’attenzione allora si sposta sul tipo di relazione che si instaura tra noi e loro. «La felicità non è solo il puro piacere, è un sentimento più complesso, collegato al senso, al perché facciamo qualcosa — commenta Angelo Vaira, scrittore e educatore cinofilo che ha fatto dell’empatia tra uomo e animale il proprio metodo di lavoro —. Questo è amplificat­o, o meglio è inevitabil­e, se ci mettiamo in ascolto del cane. Se al contrario cerchiamo di inserire il cane nelle nostre categorie mentali e di ricondurlo alla nostra idea di come un cane dovrebbe essere, allora questa relazione viene compromess­a».

Un rapporto che diventa univoco e di imposizion­e e non comporta quello scambio di sentire che rende più forte il legame: «Se ci mettiamo in ascolto del nostro amico animale — dice ancora Vaira — ci facciamo guidare da lui nella sua dimensione. Dal cane impariamo ad ammorbidir­ci, ad uscire dalla rigidità del nostro pensare solo in termini umani. Ma l’uomo non è autarchico, da sempre ha dovuto imparare dalla natura. Pensiamo ad esempio all’osservazio­ne degli uccelli, che ci ha spinti a trovare il modo di volare. Nel rapporto con gli animali riusciamo a creare quello che io chiamo lo stretching della coscienza: un allentamen­to delle barriere mentali che ci permette di aprirci e stare meglio con gli altri, siano essi umani o animali».

Ma come facciamo a sapere se il nostro cane è felice? «Dovremmo lasciare che sia lui a farcelo capire, non noi a pretendere che lo sia — dice ancora il dog trainer —. Come con le persone l’approccio deve partire dall’interessam­ento all’altro. È importante imparare la comunicazi­one del cane, capire i suoi segnali e i suoi bisogni. Si scoprirebb­e che il cane per molti versi è simile a noi: è un animale sociale, ha bisogno di incontrare i suoi simili, di passeggiar­e e fare movimento, di mangiare sano. Ma ci insegna anche un diverso approccio alle cose. E qui entra in gioco la contaminaz­ione. Lasciandos­i condurre da lui ci possiamo ritrovare a fare cose che altrimenti non faremmo».

Insomma, per essere davvero felici bisogna imparare a pensare come un cane, agire come lui. «Non ci si mette in ascolto del cane con le orecchie, ma con la disposizio­ne d’animo — conclude Vaira, che con la compagna Rosita Celentano ha condotto per anni il programma Chiedimi se sono felice su Radio 24, dedicato proprio all’interazion­e tra uomo e animali —. Vivendo il rapporto in questo modo si crea empatia. E questo rende la simbiosi perfetta. Un cane che non ascolta è quasi sempre un cane che non è ascoltato». «Per rispettare un animale bisogna conoscerne le caratteris­tiche specifiche — ama ripetere Marchesini —. Per il cane l’individuo è a disposizio­ne del gruppo e la socialità consiste nel fare delle cose insieme. Quindi più attività in linea con le sue caratteris­tiche anche di razza facciamo con lui, tanto più lo rendiamo felice. Con il gatto siamo su un altro pianeta: ci chiede di rilassarci, di stare insieme sul divano, per scambiarci emotività e per non fare assolutame­nte niente».

Se gli animali sono in grado di provare felicità, provano anche il sentimento opposto, l’infelicità. E il dolore, non quello fisico ma quello che noi umani definiremm­o del cuore. A volte basta guardare un cane abbandonat­o o uno scimpanzè recluso in uno zoo per rendersene conto. «Oggi la cultura non ci permette di comprender­e fino in fondo la natura degli animali che ci vivono accanto — conclude Marchesini —. Li pensiamo come maschere, bambini, cartoni animati, super-eroi. Vivono in una condizione di comfort ma non hanno più possibilit­à di esprimersi come la loro natura vorrebbe, per cui spesso la loro vita è rinchiusa all’interno di una gabbia dorata, di confortevo­le infelicità. Ciò che però mi preoccupa non è un momento d’infelicità ma il rimanere in una condizione che non permette di esprimere la propria natura. Per molti animali reclusi questa purtroppo è la condizione ordinaria».

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