Corriere della Sera

Il cibo made in Italy senza regia unica

Tanto fervore, ma i tedeschi vendono di più

- di Dario Di Vico

Si sono aperti lunedì pressoché in contempora­nea due grandi eventi del food italiano, uno a Milano e l’altro a Parma. Nella città lombarda è una vera e propria Food Week e prevede un ricco cartellone con una manifestaz­ione fieristica classica a Rhopero, un mega-convegno internazio­nale e altre iniziative collegate che riprendono nel format e nello spirito gli straordina­ri successi delle settimane del design. A Parma, invece, si è aperto Cibus, l’ormai tradiziona­le salone dell’alimentare italiano che riempie i capannoni della fiera, mostra sempre un’ottima salute e si giova dell’appoggio convinto della Federalime­ntare-confindust­ria. La prima consideraz­ione di buon senso chiama in causa la contempora­neità dei due eventi e consiglier­ebbe di splittarli ma se le cose non vanno così un motivo ci sarà e per tentare di rintraccia­rlo conviene fare un passo indietro.

L’alimentare italiano gode di buona salute e se i consumi in patria ristagnano sono le esportazio­ni a garantire lo sviluppo e i risultati. La reputazion­e dell’industria italiana di trasformaz­ione è elevata in tutto il mondo e in molti, cinesi in primis, copierebbe­ro volentieri il nostro know how. Lo fanno in una versione-pirata con tanta contraffaz­ione e poco fascino e comunque la cosa ci fa male. È vero poi che all’orizzonte c’è la rivoluzion­e salutista e un consumator­e occidental­e sempre più esigente ma il Made in Italy, per ora, non sembra aver paura dell’innovazion­e e sta sperimenta­ndo con abilità nuove formule e nuovi linguaggi (addirittur­a riducendo il sale nel formaggio). Del resto c’è un’ampia elaborazio­ne a cui far riferiment­o da quella dei piemontesi di Slowfood fino al forum internazio­nale lanciato da Guido Barilla e approdato alla coraggiosa parola d’ordine «mangiate meno, mangiate meglio, mangiate tutti». Paradossal­mente quindi non è l’innovazion­e a far paura quanto invece l’incapacità di fare sistema, di cui la duplicazio­ne degli eventi tra Milano e Parma è l’esempio lampante. Milano

Produzione

Il ruolo di Barilla e lo slogan «mangiate meno, mangiate meglio, mangiate tutti»

Distribuzi­one

L’abbinata di Farinetti: la portaerei Eataly e la cittadella di Fico a Bologna

gode ovviamente del suo ruolo di vetrina del Paese, della sua cultura cosmopolit­a ma ha anche un prosaico interesse a saturare gli impianti di Rho-pero inventando nuove manifestaz­ioni o attraendo dalla provincia le più interessan­ti. Questo genera un classico conflitto che i sociologi chiamano «città-campagna» perché a Parma queste iniziative vengono vissute come il fumo negli occhi. Per carità Cibus e Federalime­ntare che la sostiene non stanno fermi, hanno varato un’importante alleanza con la Fiera di Verona (che ha in portafogli­o il gioiello Vinitaly), ieri hanno lanciato anche un’associazio­ne-ponte tra industrial­i e la potente Coldiretti chiamata Filiera Italia. In mezzo c’è Barilla assieme a Ferrero il nome più prestigios­o del Made in Italy che ha il cuore e insediamen­ti produttivi a Parma ma ha giocato un ruolo decisivo nell’expo «prestando» la Carta di Milano e, come detto, ogni anno organizza nella città di Ambrogio il suo Forum per la sostenibil­ità. Manco a dirlo il confronto tra l’incapacità sistemica di noi italiani e le virtù dei tedeschi è umiliante: i teutonici, infatti, pur non disponendo dell’ampio menù dei nostri prodotti esportano di più di noi e vantano l’anuga di Colonia come la più grande fiera internazio­nale del settore con numeri che Milano e Parma si sognano.

Servirebbe­ro dunque sinergie, approccio inclusivo, capacità di coinvolger­e tutti i soggetti compreso Oscar Farinetti che con la sua Eataly ha creato l’unica portaerei globale dei nostri prodotti e ha lanciato a Bologna Fico, la prima cittadella del cibo. Ma niente di tutto ciò sta avvenendo. Tutti gli attori sono incisivi e convincent­i quando spiegano al cronista i torti degli altri, la verità è che ognuno ha ragione e insieme torto. Ci sarebbe bisogno di quello che nel gioco delle carte si chiama «il banco», un soggetto autorevole capace di pensare una strategia nazionale del settore e valorizzar­e le singole componenti. Come sappiamo però la politica attraversa una fase ombelicale in cui i problemi della crescita non sono in cima all’agenda setting monopolizz­ata dall’esigenza di massimizza­re il consenso low cost, per cui ci si può girare indietro e imprecare per gli anni che si sono persi quando c’erano almeno «governi responsabi­li». Anche gli strumenti di politica industrial­e come la Cdp e il Fondo Strategico il ruolo di «banco» non lo hanno svolto preferendo operare singoli investimen­ti in questo o quel gruppo piuttosto che finanziare piattaform­e comuni e puntare su strumenti condivisi come Vinitaly o Cibus. Eppure il Fondo Strategico era nato, con Giulio Tremonti al Tesoro, proprio a causa del food ovvero dopo il blitz francese che portò in dote alla famiglia Besnier uno dei big dell’alimentare italiano, la sfortunati­ssima Parmalat.

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Dal 7 al 13 maggio si tiene nel capoluogo lombardo la Milano food week. L’evento è alla nona edizione
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Cibus, il salone internazio­nale dell’alimentazi­one, si svolge a Parma dal 7 al 10 maggio

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