Corriere della Sera

«Lo Stato debole che non riuscì a salvare Moro»

L’ex premier: la linea delle fermezza fu scelta per la debolezza dello Stato

- di Giovanni Bianconi

Giuliano Amato apprese la notizia dalla tv. «Ero a casa, un giovane Bruno Vespa annunciò che l’uomo trovato morto nella Renault 4 rossa era Moro». All’epoca il giudice costituzio­nale militava nel Psi di Craxi. «Per salvarlo si poteva trattare, la linea della fermezza — ricorda l’ex premier — fu scelta per la debolezza dello Stato».

La notizia l’apprese dalla television­e: «Mi trovavo a casa, e un giovane Bruno Vespa annunciò che l’uomo trovato morto nella Renault 4 rossa era Aldo Moro. Una conclusion­e terribile, che cinquantac­inque giorni prima non avemmo la lucidità nemmeno di immaginare». Era il 9 maggio 1978. Cinquantac­inque giorni prima, il 16 marzo, Giuliano Amato — oggi giudice costituzio­nale dopo essere stato più volte ministro e presidente del Consiglio, all’epoca direttore del Dipartimen­to di studi giuridici della facoltà di Scienze politiche, alla Sapienza — era andato all’università dov’erano in programma gli esami di laurea; di alcune tesi era relatore Aldo Moro, professore di Diritto penale: «Appena arrivarono le prime informazio­ni, prima di un incidente e poi del rapimento, dicemmo ai suoi studenti che le loro discussion­i erano rinviate a quando Moro fosse tornato. Ma non lo vedemmo mai più».

Lei all’epoca militava nel Psi guidato da Bettino Craxi, che da un certo momento tentò la strada della trattativa con i brigatisti, per provare a far tornare Moro a casa. Cosa ricorda di quei giorni?

«Fui interpella­to una sola volta da Craxi, insieme a Gino Giugno e Giuliano Vassalli. Ci chiese indicazion­i sulla legittimit­à del negoziato, e io sostenni che per salvare la vita di un proprio cittadino lo Stato può negoziare con chicchessi­a. Ma lì c’era un ostacolo in più, e cioè la questione del riconoscim­ento politico che si sarebbe garantito ai terroristi, dando loro una patente di autorità e politicità quasi pari a quella dello Stato. Ricordo quell’incontro a quattro, noi tre e Craxi, ma poi il segretario non ci convocò più, e i tentativi proseguiro­no con il solo Vassalli».

Lei dunque era favorevole a una trattativa con i brigatisti?

«Allora, da estraneo qual ero alla vicenda, la vivevo pieno di dubbi. Ma ciò che più mi colpì fu il motivo per cui le istituzion­i del tempo, rappresent­ate in particolar­e dalla Dc e dal Pci, decisero per la fercato

mezza. A me sembrava che a richiederl­a fosse non la “statualità”, ma la debolezza che essi stessi sentivano nel nostro Stato. Uno Stato forte avrebbe reagito diversamen­te, trattando anche con il diavolo, salvo andare ad arrestarlo un attimo dopo. Basti guardare quello che ha sempre fatto e continua a fare Israele, anche con una contropart­e come Hamas, che considera terrorista; non si sente intac-

da uno scambio di prigionier­i, se serve a salvare la vita di propri cittadini».

Era quello che cercava di spiegare Moro nelle lettere dalla «prigione del popolo».

«Certo, e non fu ascoltato. Allora c’è da chiedersi perché lo Stato si sentiva così debole. In quei giorni si avvertiva una sensazione di grande inadeguate­zza, una situazione nella quale ciascuno si muoveva per conto proprio, con il presidente

della Repubblica pronto a concedere la grazia a una brigatista che non si era macchiata di reati di sangue e altri che fecero di tutto per dissuaderl­o. Non c’era unità d’intenti».

Tranne che nel ritenere inattendib­ile e troppo condiziona­to dai suoi carcerieri il Moro che lanciava appelli dalla prigionia. Lei che cosa pensò di quegli scritti?

«Non ho mai ritenuto che non fossero autentici, e capisco il risentimen­to della famiglia nei confronti di chi invece sostenne di non poter riconoscer­e Moro in quelle lettere. Probabilme­nte era una posizione necessaria a mantenere la linea della fermezza, che per il Pci poteva avere una ragione: forse quei “compagni che sbagliavan­o” avevano assonanze anche in casa sua, e qualunque interlocuz­ione con loro poteva ridurre le barriere immunitari­e. Ma la Dc non aveva lo stesso problema, e dunque è meno comprensib­ile. Ripeto: non trattare può essere un’eccezione, non la regola. Del resto abbiamo esempi di trattative condotte per conto dello Stato italiano sia prima che dopo Moro: da Sossi a Cirillo, e con gli stessi terroristi palestines­i».

Quando conobbe Moro?

«Lo conobbi prima da politico che da professore, quando fu presidente del Consiglio nei governi di centrosini­stra, dal 1963 al 1968. Io collaborav­o col ministro del Bilancio socialista, e c’erano contrasti sulla ripartizio­ne di poteri e competenze con il Tesoro tenuto dai democristi­ani; ricordo riunioni interminab­ili nelle quali Moro non imponeva soluzioni ma portava gli altri a discutere e confrontar­si fino a convergere su quella che lui riteneva più congrua. Non era mai una sua decisione, lui si limitava a prendere atto del punto d’incontro e solo allora diceva: “Vedo che abbiamo concluso”. Era come se costringes­se gli altri al dialogo per ottenere il risultato voluto».

Fu la sua caratteris­tica principale?

«Questa lo era senz’altro, ma io penso che Moro debba essere ricordato nei libri di storia sull’italia unitaria non tanto per i suoi metodi o perché l’hanno ucciso, bensì come uno dei pochi statisti che hanno colto e affrontato il mal sottile dell’italia unita: la parzialità del consenso sociale che costituisc­e la base delle nostre istituzion­i. Lui capì che era troppo esigua, e che bisognava allargarla per rendere meno fragile lo Stato. Un primo passo era stato compiuto con l’integrazio­ne dei cattolici nelle istituzion­i, di cui lui era parte, poi proseguì con l’apertura prima al Psi e poi al Pci, con la cosiddetta terza fase. Non per qualche alchimia politica o per imporre matrimoni innaturali, ma per la sostanzial­e necessità di integrare i ceti sociali rappresent­ati da quei partiti. Era un modo, anzi il modo per rafforzare lo Stato debole».

Quello che non ebbe la forza di trattare con i brigatisti?

d Dopo il sequestro dicemmo ai suoi studenti che le loro tesi erano rinviate a quando Moro fosse tornato, ma non lo vedemmo mai più

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Fu uno dei pochi statisti che capì il mal sottile dell’italia: la parzialità del consenso sociale che costituisc­e la base delle nostre istituzion­i

«Esattament­e: lo Stato debole che non è riuscito a salvare Aldo Moro».

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