Corriere della Sera

Le conseguenz­e della fiction

I meccanismi dell’emulazione da «I dolori del giovane Werther» ai videogioch­i

- di Antonio Polito

Quando cominciai a fare il cronista, più di quarant’anni fa, nel mio giornale era vietato raccontare i suicidi. Tranne casi rarissimi, se cioè riguardava­no persone molto note. Il rischio dell’emulazione, che con il dilagare dell’inglese avremmo poi scoperto chiamarsi «effetto copycat», era considerat­o superiore all’interesse del pubblico di essere informato. Si trattava di una scelta discutibil­e dal punto di vista deontologi­co, e noi giovani cronisti scalpitava­mo per dare tutte le notizie. Era pur sempre una forma di autocensur­a, e non sai mai come può finire quando cominci a nascondere i fatti al pubblico per il suo bene. Ma da un punto di vista etico non era poi una scelta peggiore della spettacola­rizzazione dei suicidi, specie di adolescent­i, cui oggi indulgono normalment­e i media, «new» e «old», amplifican­do a dismisura il rischio dell’emulazione.

È dunque difficile trovare una via praticabil­e alla responsabi­lità; ma chi maneggia storie non può esimersi, perché «l’influenza che hanno nelle nostre vite è un tema troppo importante per lasciarlo nelle mani di scettici e censori». A questo fine torna utile Emulazioni pericolose, il nuovo e documentat­issimo libro (Einaudi) di Luca Mastranton­io, giovane giornalist­a del settimanal­e «7» del «Corriere», molto a suo agio nella cultura popolare del nostro tempo, dalle fiction ai videogioch­i.

Si tratta del resto di un problema antico. C’è qualcosa di misterioso nella natura umana che ci spinge a «desiderare di essere qualcuno anche più che di avere qualcosa»: se n’è cercata la causa perfino in fattori chimici come la dopamina, il neurotrasm­ettitore che regola i processi decisional­i, o i neuroni-specchio. Fatto sta che tutti vogliamo esser qualcuno, e questo non è mai tanto vero come nella fiction, dove realtà e finzione si mescolano a meraviglia: anche Don Chisciotte e Madame Bovary volevano tanto esser qualcuno.

Il problema è quando accade il contrario, ed è la realtà ad imitare la finzione. Il primo fenomeno «virale» di emulazione, come si direbbe oggi, risale addirittur­a al 1774. Fu un bestseller I dolori del giovane Werther di Goethe: impose una moda, (giacca blu, pantaloni gialli e stivali, outfit del protagonis­ta), influenzò i consumi (le dame compravano il profumo «Eau de Werther»), e provocò un’ondata di suicidi di giovani innamorati, a imitazione di Werther. Il caso più clamoroso fu quello della «dama di corte Christel Lassberg, trovata priva di vita nelle fredde acque del fiume Ilm nel gennaio del 1778, con una copia del romanzo in tasca». Madame de Staël scrisse che «Werther aveva provocato più suicidi della più bella donna del mondo».

La situazione divenne così grave che lo stesso Goethe dovette inserire una prefazione nelle successive edizioni del libro per invitare il lettore a non emulare il protagonis­ta: «Chi tra i giovani uomini non si innamora?/ Chi tra le giovani donne non considera l’amore?... Carissimo lettore, piangi per lui, amalo/ … Guarda! Gli occhi della sua anima fuggita ti stanno parlando … e dicono: “Sii un uomo dignitoso e non seguire le mie orme”».

Ai nostri tempi, tempi di social e di Net- flix, le ondate emulative sono molto più frequenti, eccentrich­e e allarmanti, e non si tratta solo di suicidi. Mastranton­io ce ne fa un agghiaccia­nte catalogo: quelli che provano a fare i boss perché sono fan di Gomorra, o gli spacciator­i se seguono Breaking Bad, o i serial killer se amano Dexter, o i torturator­i se guardano 24. E spesso commettono delitti, nei modi più efferati, pur di immedesima­rsi nei personaggi preferiti.

«L’emulazione è un fenomeno virale, e non è possibile vaccinarsi», ammette l’autore. Ma contiene anche il suo stesso antidoto, ed è forse su questo che si può costruire «un nuovo senso di responsabi­lità diffusa». Nei suicidi, per esempio, si può opporre all’«effetto Werther» un «effetto Papageno», dal nome del personaggi­o del Flauto magico di Mozart che viene convinto da tre spiritelli a non togliersi la vita. Prendiamo il caso di Kurt Cobain, pop star la cui tragica fine aveva fatto temere un’ondata emulativa. Durante la veglia funebre, la moglie Courtney Love fece ascoltare il messaggio registrato in cui il musicista lasciava ai fan il messaggio di addio. «Poi officiò uno strano rito: chiese ai presenti, che obbedirono come fedeli in chiesa, di dire ad alta voce che Kurt Cobain era un asshole; cioè uno stronzo, perché li aveva lasciati, traditi». Funzionò: in tanti si rivolsero ai servizi anti-suicidio, l’«effetto copycat» fu molto attenuato.

L’altro caso istruttivo fu quello del suicidio dell’attore Robin Williams. Lasciò di stucco il mondo perché i suoi personaggi, «benché spesso velati di malinconia, erano sempre pronti a combattere, anche quando sconfitti. Come il professor John Keating, protagonis­ta dell’attimo fuggente». E infatti la gente si immedesimò più nel personaggi­o che nell’attore, l’immediata reazione dei fan sul web fu un omaggio alla scena finale del film di Weir: «A migliaia, in tutto il mondo, sono saliti sui banchi, di scuola o dell’ufficio, o sul tavolo di casa, come gli studenti che alla fine del film salutano il professore. Si sono fatti

Un fenomeno virale

Ci sono quelli che provano a fare i boss perché sono fan di «Gomorra», o gli spacciator­i se seguono «Breaking Bad»

una foto e l’hanno condivisa, producendo una specie di flash mob, quasi a volersi consolare».

Un’emulazione a rovescio. Il lato buono delle storie è che possono avere anche un forte effetto catartico, come ben sapevano gli autori della tragedia greca, matrice di ogni forma di narrazione moderna. «Credere di potersi mettere a dieta di finzioni ed emulazioni, o che la politica e il marketing usino meno storytelli­ng, è dunque illusorio. Ma la consapevol­ezza di questi condiziona­menti ci permette di scegliere da chi e che cosa farci influenzar­e», conclude l’autore. E ha ragione. Niente alibi: l’era digitale non priva del libero arbitrio produttori, consumator­i e mediatori di contenuti narrativi. Resta sulle nostre spalle il dovere di «agire responsabi­lmente e consapevol­mente».

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