Montanelli detestava Savonarola E non solo per il fanatismo bigotto
Roberto Gervaso: «Indro era convinto che quel frate portasse sfortuna Un fattorino mi disse che i nostri libri gli avevano fatto amare la storia»
«Ricordo benissimo quel pomeriggio. Eravamo in un liceo romano, dopo tanti anni non rammento con precisione quale. Per colpa di Savonarola arrivarono i carabinieri….» Sono passati 51 anni dalla prima edizione del libro L’italia dei secoli d’oro, oggi in edicola con il «Corriere», ed è verosimile che Roberto Gervaso, partner di Indro Montanelli nella scrittura di quello e di altri cinque volumi della collana, non ricordi bene l’indirizzo. Ma l’aneddoto è nitido: «Occorre una premessa. Indro era molto superstizioso. Aveva deciso che Savonarola portava iella, che era una figura oscura. Quando mettemmo mano al piano dell’opera, ci dividemmo il lavoro. Di Gerolamo non ne volle sapere: “La faccenda è delicata… di quel frate, te ne occupi tu, non voglio nemmeno leggere quello che scriverai, mi fido sulla parola…”. Fece anche dei gesti irriferibili, chi ha conosciuto Indro sa bene che tipo fosse».
Fatto sta che L’italia dei secoli d’oro andò in stampa, cominciarono le presentazioni e i tour nelle scuole. Quel pomeriggio romano, uno studente si alzò per una domanda e si concentrò su Savonarola: «Indro non disse una parola, mi guardò e capii che avrei dovuto rispondere io. E così dissi ciò che ho sempre pensato di Savonarola: un intollerante, un persecutore, un fanatico, un bigotto, un piagnone… Improvvisamente un professore cominciò a gridarmi contro, a difendere il frate, a sostenere che stavamo diffamando una prestigiosa figura storica. Chiamò i carabinieri e faticammo molto a convincerli che tutto era nato per una discussione storica, su un personaggio del passato. Chissà, magari aveva proprio ragione Indro, quel frate porta iella davvero»
Roberto Gervaso, che compirà a luglio 81 anni, è molto felice per il ritorno della Storia d’italia: «Sono l’ultimo dei tre autori ancora vivo. Devo moltissimo, direi quasi tutto, a Montanelli. Fu lui ad accendere la mia scintilla, la passione per la scrittura, lo scoprii quando avevo 16 anni: lessi dal barbiere un suo indimenticabile e ironico reportage intitolato Polli a Cinecittà, dedicato alla pausa pranzo dei film in lavorazione. Rimasi folgorato. Non ebbi pace finché, grazie a una lettera che gli scrissi, non riuscii a incontrarlo a Roma dopo la maturità classica. Ne dissero di tutti i colori, che io ero suo figlio…. Fesserie. Semplicemente credette in me e mi fece assumere al “Corriere della Sera” nell’aprile 1962. Poi mi aiutò a farmi trasferire alla redazione romana».
Montanelli era reduce dai grandi successi de La storia di Roma e La storia dei Greci. Una certa mattina del 1964, stavamo uscendo dalla redazione romana in via della Mercede, mi mise una mano sulla spalla e mi chiese: «Robertino... perché mi ha sempre chiamato così con affetto... la scriviamo insieme la Storia d’italia? Io credevo che scherzasse, mi sentivo come un ammiratore della Loren che si sente proporre da Sofia di andare a cena insieme. Insomma, mi sembrava di sognare». Ma la proposta era serissima. E naturalmente fu lui, il grande Indro, ad assumere la regìa, a decidere i ruoli. A indicare il metodo: «Hai presente il monumento equestre a Garibaldi? Tu dovrai disarcionarlo, metterlo in mutande e raccontarlo». A dare i tempi e anche i voti al lavoro di «Robertino»: «Mi disse che da quel momento avrei dovuto indossare il saio del benedettino e dedicarmi all’opera. Lui divideva il lavoro. Per esempio, per i Secoli bui lui avrebbe scritto da Costantino fino alla deposizione di Romolo Augustolo e io fino all’anno Mille. Lui non interveniva sul mio lavoro con le correzioni. Leggeva e si limitava ad approvare o a bocciare».
Il capitolo sui Longobardi con Alboino sui rivelò un incubo: «Lo dovetti riscrivere tredici volte. Dico: tredici volte. L’ultima stesura, la quatvedeva tordicesima, la lesse in uno dei suoi viaggi in aereo, poi mi mandò un telegramma: “Perfetto, avrei voluto scriverlo io”»
L’avventura de La storia d’italia, ricorda Gervaso, fu avversata da due fronti: «Da una parte il mondo accademico baronale e pomposo, che ci come un attentato al proprio pascolo. Dall’altra la cultura di sinistra che ci attaccò continuamente. Capii che avevamo vinto la nostra battaglia un giorno in cui approdai a Ponza e allungai mille lire di mancia al ragazzo dei bagagli. Rifiutò i soldi dicendo: “Non posso accettarli, Montanelli e lei mi avete aiutato a capire e amare la storia”».
Poi il sodalizio si sciolse: «Avevo voglia di affrancarmi, lui capì e affettuosamente acconsentì». Ci fu un lungo distacco, anche per colpa dell’iscrizione di Gervaso alla loggia P2 di Licio Gelli: «Mi disse con amarezza e durezza che avevo sbagliato... passarono anni di silenzio. Poi nel 1995 ci ritrovammo. Ora resto dentro di me l’allievo devoto di un Maestro. Ancora oggi scrivo con la Lettera 22 che mi ha lasciato...».
Perfezionismo «Dovetti riscrivere tredici volte un capitolo su Alboino e gli altri re dei Longobardi»