Blanchett e le donne: siamo una giuria militante
Una giuria di lotta e di glamour. Non c’è contraddizione, Madame la présidente insegna. Cate Blanchett si presenta regale a capo del drappello, quattro donne e quattro uomini, che la sera del 19 maggio assegnerà gli otto premi del palmarès di Cannes 71, e sottoscrive quanto detto dall’unica giurata debuttante sulla Croisette, la musicista del Burundi Khadja Nin: «Una giuria militante di resistenti che si muovono nella stessa direzione». Robert Guédiguian si fa prendere dall’entusiasmo e cita Mao, in tema di artisti e popolo.
Il festival, a differenza della rivoluzione, è anche un pranzo di gala, ma, ribadisce Blanchett, una cosa non esclude l’altra. «Cannes è sì il regno del glamour, ma essere attraenti non preclude la possibilità di essere intelligenti». E con gli occhi aperti. A Cate e alle sue sorelle — Kristen Stewart sempre più divina, qui già quattro volte come attrice e una come regista esordiente, l’anno scorso, la cineasta e attivista Ava Duvernay, Khadja Nin e Léa Seydoux principessa del cinema francese e accusatrice di Harvey Weinstein, e anche ai colleghi, tutti fedeli alla linea Blanchett: oltre a Guédiguian, Denis Villeneuve, Andrey Zvyagintsev e l’attore Chang Chen — è toccato un compito importante. Assicurare credibilità e simpatia al festival diretto da Thierry Frémaux, nella prima edizione dell’era Metoo, il primo post-weinstein. Comunque la si metta, questo resta — soprattutto agli occhi degli americani — il luogo del delitto. Qui l’ex mogul giocava in casa, qui ha fatto il bello e il cattivo tempo, qui sono avvenuti alcuni delle aggressioni denunciate dalle attrici, come Asia Argento.
Ne sono consapevoli tutti, a partire dal festival che ha attivato un centralino telefonico anti molestie. «L’effetto Weinstein è arrivato fin qui, ma è solo la punta di un iceberg. Riguarda la parità dei sessi, l’equilibrio delle minoranze e non va ristretto al cinema — dice Villeneuve. Sarà una battaglia lunga, un percorso che si misura in anni ma che deve portare a un vero rispetto delle differenze». Come dire, «non siamo chiamati a dare un Nobel per la pace, ma una Palma d’oro», spiega la presidente. Però. Non è una partita che si può chiudere nel corso di un’edizione ma Blanchett lo sa bene, ogni gesto può contare. Per questo lei e le altre saranno sabato parte della Montée de marches tutta al femminile annunciata dal delegato generale Frémaux e il 16 saranno al fianco delle attrici nere francesi che nei giorni scorsi hanno denunciato nel libro Noir n’est pas mon métier anche il razzismo. Anche dare indicazioni per il futuro conta. «Ci sono solo tre registe in gara? Anni fa erano solo due — commenta l’attrice australiana —. E quelle che ci sono quest’anno sono qui non per il loro genere ma per la qualità del loro lavoro. Se vorrei vedere più donne in concorso? Certo che sì». In attesa di un futuro migliore madame la présidente vigila sul presente e fa le pulci al giornalista che domanda ai registi: «I film sono ancora importanti?». «Attrici — dice alle colleghe — voi non rispondete perché non potete avere un’opinione a riguardo».
In quanto al lavoro che li attende, dai magnifici otto, la presidente non si aspetta certo l’unanimità. «Sembra paradossale detto da chi guida la giuria, ma più che i premi a me interessa il dialogo, la discussione tra idee diverse».