I giovani precari che pesano sul voto
Un lavoro a termine su due non supera i 6 mesi Nel 75% dei casi il part time non è una scelta. Scese al 20% le assunzioni stabili
ROMA Sappiamo tutti, per esperienza diretta o per conoscenza, che le famiglie sono preoccupate per la difficoltà dei figli di trovare un lavoro stabile. Per capire che si tratta di una preoccupazione legittima e per nulla esagerata basta leggere alcuni passaggi della relazione con la quale il presidente dell’istat è intervenuto ieri in Parlamento sul Def, il Documento di economia e finanza presentato dal governo uscente. Passaggi che raccontano come, negli ultimi 10 anni, sia aumentato il lavoro precario fra i giovani, nonostante gli sforzi fatti dai vari governi, ora spingendo l’apprendistato, ora tagliando il cuneo fiscale, ora con la decontribuzione sulle assunzioni stabili.
È vero, per la prima volta dal 2008, il numero di occupati è tornato sopra i 23 milioni, recuperando circa un milione di posti persi nella crisi, ma «la crescita dello stock di occupazione è stata sostenuta principalmente dai lavoratori ultracinquantenni», avverte Giorgio Alleva. Un trend, questo dell’aumento dei lavoratori anziani, dovuto all’aumento dell’età pensionabile deciso con ripetute riforme della previdenza e sicuramente necessario, perché prima in Italia si lasciava il lavoro troppo presto. I giovani, invece, arrancano. Anche loro hanno beneficiato (marginalmente) del generale incremento dell’occupazione, ma tra i giovani è aumentata soprattutto la quota di lavoratori precari, con contratti che in un caso su due non superano 6 mesi, dice l’istat.
«Nel 2017 l’aumento degli occupati 15-34enni ha interessato solamente i dipendenti a tempo determinato (+176 mila; +14%). L’occupazione giovanile si caratterizza sempre di più per un’elevata incidenza di lavori a termine», spiega Alleva. Tanto che ormai un lavoratore dipendente giovane su tre ha un contratto temporaneo. «Rispetto al 2008 – spiega il presidente dell’istat – l’incidenza del lavoro a termine per i giovani è aumentata di nove punti percentuali». Si tratta di un incremento molto più forte di quello riscontrato sulla totalità degli occupati, dove oggi il peso dei rapporti di lavoro a termine è dell’11,8% sul totale, “solo” 1,9 punti in più del 2008.
Del resto, questi dati, che fotografano lo stock di lavoratori, sono il risultato di un flusso annuale che vede, non solo tra i giovani ma in tutto il mercato del lavoro, la diminuzione della quota di assunzioni a tempo indeterminato sul totale. Secondo i dati dell’osservatorio Inps, infatti, si è scesi dal 42% nel 2015 (anno della decontribuzione) al 29,9% del 2016 al 23,2% del 2017. E nei primi due mesi di quest’anno, su 1,1 milioni di rapporti di lavoro attivati, solo 228 mila sono stabili, cioè appena il 20%. Il resto sono lavori a termine, stagionali, in apprendistato, in somministrazione, a chiamata.
Tornando allo stock fotografato da Alleva, si potrebbe obiettare che la fascia d’età fra 15 e 34 anni comprende gli studenti, dove è abbastanza naturale che si concentrino i lavoretti. Ma l’istat specifica che, anche «restringendo l’analisi alla fascia con 25-34 anni, il lavoro a termine costituisce il 21,7% del totale degli occupati, in aumento di 2 punti rispetto al 2016 e di 7,6 punti rispetto al 2008». Ma i dati che forse colpiscono di più sono appunto quelli relativi alla durata dei contratti temporanei. «Circa la metà dei giovani a tempo determinato – dice Alleva – ha un lavoro di durata inferiore a sei mesi (48,4%)» e questa quota sale al 63,8% «per quanti svolgono una professione non qualificata». Inoltre, due giovani su tre a part time lo sono non per scelta, ma perché non hanno trovano di meglio.
Questo accorciamento del lavoro viene confermato dall’analisi dell’andamento dell’orario effettivo. Nel 2017 il monte ore lavorate nelle imprese e quello pro capite degli occupati sono entrambi ancora sotto i livelli del 2008, nonostante siano in crescita dal 2014. Cioè, mentre il mercato del lavoro ha recuperato i posti persi, tornando quota 23 milioni, si lavora però meno ore. Nel 2017 gli occupati impiegati per più di 36 ore alla settimana sono stati il 63%, quasi 5 punti in meno del 2007. Quelli con un orario corto, fra le 21 e le 35 ore settimanali, sono invece saliti dal 13,6%nel 2007 al 17,2% nel 2017 e quelli impegnati tra 11 e 20 ore dal 7,8% al 9,1%. C’è infine un 2,6% che lavora per meno di 11 ore alla settimana: era il 2,1% nel 2007.
Si potrebbero aggiungere altri numeri significativi, tra quelli illustrati da Alleva, come il fatto che «nella fascia dei 25-34 anni (quindi anche qui al netto degli studenti, ndr.) il tasso di disoccupazione nel 2017 è pari al 17%» contro una media dell’eurozona dell’11%. Oppure che rispetto al 2008 sono raddoppiate le famiglie dove tutti i componenti non hanno un lavoro: da 535 mila a 1,1 milioni. Oppure l’aumento della povertà assoluta e dell’indice di diseguaglianza. Il tutto non per negare che oggi il Paese stia meglio rispetto al picco della recessione (nel 2009 il Pil è sceso del 5,5% e nel 2012 del 2,8%), ma per ricordarci che la crisi ha lasciato ferite profonde. E che la strada da fare è ancora tanta.
Impiego temporaneo La quota di dipendenti a termine fra 15 e 34 anni è salita di nove punti dal 2008 a oggi