UNA NUOVA RELAZIONE TRA INTEGRAZIONE E CRESCITA
Politica e società Al di là del reddito di cittadinanza, tutte le forze politiche hanno inserito nei loro programmi misure di protezione per i ceti più deboli
Uno dei temi caldi di questa difficile transizione politica è stato il reddito di cittadinanza, proposto — e poi accantonato — dal M5S. In realtà tutte le forze politiche hanno nei loro programmi misure di protezione per il lavoro e i ceti più deboli. Cresce infatti la consapevolezza che il legame tra crescita, inclusione sociale e sicurezza si è ormai incrinato. Il problema è come intervenire. Fragilità del quadro macroeconomico e digitalizzazione del lavoro sollecitano nuove riflessioni. Siamo dentro una grande trasformazione che avrà effetti importanti sui modi e i tempi di lavoro. E che, proprio per questo, va governata e accompagnata. Con intelligenza e creatività. Cominciamo col mettere in fila alcuni fatti.
Oggi in Italia abbiano raggiunto il picco storico di occupazione. Oltre 23 milioni di persone. Ma è diminuito il monte ore complessivo. Ciò significa che più persone lavorano ma sono molti quelli che non lavorano a tempo pieno. Questo perché oggi una quota importante del lavoro disponibile è fatta di frammenti che saturano tante piccole nicchie. La conseguenza è il diffondersi della figura del working poor che contraddice l’idea del lavoro come cardine della cittadinanza sociale, prevalente nella seconda metà del XX secolo.
Una seconda considerazione ha a che fare col diffondersi di lavori a orario ridotto, associati a livelli elevati di produttività. Nella imprese ad alto profilo tecnologico per ottenere livelli più elevati di produttività si comincia a considerare la possibilità di far lavorare meno ma più intensamente. La rimodulazione dell’orario di lavoro (attorno alle 30 ore settimanali) — diffusa già in Olanda e di cui si discute molto anche in Germania — costituisce un fattore di cambiamento importante che va monitorato e, se possibile, incentivato.
In terzo luogo, cominciano a sorgere dubbi sul modo in cui fino a oggi si è cercato di adeguarsi all’invecchiamento della popolazione (centrato sullo spostamento in avanti dell’età della pensione).
Modifiche Siamo dentro una grande trasformazione che avrà effetti importanti sui modi e i tempi di lavoro
A lungo andare, tali politiche comportano conseguenze negative sulla produttività totale, dato che una forza lavoro anziana non riesce a essere produttiva quanto una più giovane. Il problema è la rigidità del modello. Prima o poi occorrerà aprire la questione di come modulare diversamente il lavoro nelle diverse fasi della vita.
Infine, oggi abbiamo a che fare con tecnologie (quelle digitali) che sono sistemiche. Ciò significa che i miglioramenti di produttività — stagnanti da tempo nei Paesi avanzati — sono ottenuti non solo e non tanto a livello di singola impresa quanto a livello territoriale e sociale. Non basta avere fabbriche efficienti. Sono i territori che vanno riorganizzati. Ristrutturando le forme di coordinamento dell’attività umana, la digitalizzazione può spingerci verso la società dell’ipercontrollo (come alcune notizie allarmanti provenienti soprattutto dalla Cina fanno temere) oppure verso una migliore integrazione tra lavoro e vita. Una partita tutta da giocare.
Come si vede, ci aspettano sfide molto grandi che ruotano attorno a tre cardini.
Primo: per una quota non piccola di occupati, il salario rischia di non bastare. Il salario minimo orario è uno strumento necessario, ma
Controllo Il cambiamento dovrà essere governato e accompagnato. Con intelligenza e creatività
forse occorre cominciare a ragionare anche attorno al reddito minimo sociale (da raggiungere mediante la leva fiscale, la fornitura di servizi e, a certe particolari condizioni, contributi pubblici).
Secondo: occorre riorganizzare per intero la filiera delle formazione. Sul tema scuola si deve aprire una riflessione di sistema che coinvolga l’intero assetto ereditato dal passato. Il percorso formativo deve iniziare prima (con la diffusione dei nidi), deve essere più articolato (col potenziamento della formazione tecnica e professionale) e deve durare di più (la formazione deve diventare permanente). Il sostegno al reddito va vincolato alla partecipazione attiva a percorsi di formazione che vanno però organizzati in modo molto più strutturato e incisivo.
Terzo: va ampliato il perimetro di ciò che va considerato «lavoro». Se come abbiamo visto, la produttività oggi è sistemica — mettendo in relazione tutti i settori (da quello manifatturiero al terziario, da quello sanitario a quello educativo e assistenziale, da quello ambientale a quello della ricerca) — e se, d’altra parte, tende ad aumentare il tempo non impegnato nella occupazione formale, abbiamo bisogno di capire come riconoscere (prima di tutto fiscalmente) quelle attività che, pur contribuendo ad accrescere il valore prodotto all’interno della società nel suo insieme (a cominciare dal lavoro di cura), non sono strettamente produttive.
Al fondo si intravvede la possibilità di un nuovo scambio sociale che da un lato renda possibile un ciclo di crescita (e di profitti) basato sul vincolo della sostenibilità (integrale); e dall’altro sia capace di riconoscere e premiare il contributo personale e collettivo nella produzione di valore (monetario e non).
La trasformazione in corso ci spinge ad aprire una stagione di innovazione istituzionale e sociale.
La buona notizia è che, per ristabilire la relazione tra crescita economica e integrazione sociale, dobbiamo puntare a un’idea più larga (meno quantitativa e più qualitativa) di benessere. Uscire dalla crisi significa smettere di rassegnarsi al peggio e tornare a progettare il meglio.