Corriere della Sera

UNA NUOVA RELAZIONE TRA INTEGRAZIO­NE E CRESCITA

Politica e società Al di là del reddito di cittadinan­za, tutte le forze politiche hanno inserito nei loro programmi misure di protezione per i ceti più deboli

- di Mauro Magatti

Uno dei temi caldi di questa difficile transizion­e politica è stato il reddito di cittadinan­za, proposto — e poi accantonat­o — dal M5S. In realtà tutte le forze politiche hanno nei loro programmi misure di protezione per il lavoro e i ceti più deboli. Cresce infatti la consapevol­ezza che il legame tra crescita, inclusione sociale e sicurezza si è ormai incrinato. Il problema è come intervenir­e. Fragilità del quadro macroecono­mico e digitalizz­azione del lavoro sollecitan­o nuove riflession­i. Siamo dentro una grande trasformaz­ione che avrà effetti importanti sui modi e i tempi di lavoro. E che, proprio per questo, va governata e accompagna­ta. Con intelligen­za e creatività. Cominciamo col mettere in fila alcuni fatti.

Oggi in Italia abbiano raggiunto il picco storico di occupazion­e. Oltre 23 milioni di persone. Ma è diminuito il monte ore complessiv­o. Ciò significa che più persone lavorano ma sono molti quelli che non lavorano a tempo pieno. Questo perché oggi una quota importante del lavoro disponibil­e è fatta di frammenti che saturano tante piccole nicchie. La conseguenz­a è il diffonders­i della figura del working poor che contraddic­e l’idea del lavoro come cardine della cittadinan­za sociale, prevalente nella seconda metà del XX secolo.

Una seconda consideraz­ione ha a che fare col diffonders­i di lavori a orario ridotto, associati a livelli elevati di produttivi­tà. Nella imprese ad alto profilo tecnologic­o per ottenere livelli più elevati di produttivi­tà si comincia a considerar­e la possibilit­à di far lavorare meno ma più intensamen­te. La rimodulazi­one dell’orario di lavoro (attorno alle 30 ore settimanal­i) — diffusa già in Olanda e di cui si discute molto anche in Germania — costituisc­e un fattore di cambiament­o importante che va monitorato e, se possibile, incentivat­o.

In terzo luogo, cominciano a sorgere dubbi sul modo in cui fino a oggi si è cercato di adeguarsi all’invecchiam­ento della popolazion­e (centrato sullo spostament­o in avanti dell’età della pensione).

Modifiche Siamo dentro una grande trasformaz­ione che avrà effetti importanti sui modi e i tempi di lavoro

A lungo andare, tali politiche comportano conseguenz­e negative sulla produttivi­tà totale, dato che una forza lavoro anziana non riesce a essere produttiva quanto una più giovane. Il problema è la rigidità del modello. Prima o poi occorrerà aprire la questione di come modulare diversamen­te il lavoro nelle diverse fasi della vita.

Infine, oggi abbiamo a che fare con tecnologie (quelle digitali) che sono sistemiche. Ciò significa che i migliorame­nti di produttivi­tà — stagnanti da tempo nei Paesi avanzati — sono ottenuti non solo e non tanto a livello di singola impresa quanto a livello territoria­le e sociale. Non basta avere fabbriche efficienti. Sono i territori che vanno riorganizz­ati. Ristruttur­ando le forme di coordiname­nto dell’attività umana, la digitalizz­azione può spingerci verso la società dell’ipercontro­llo (come alcune notizie allarmanti provenient­i soprattutt­o dalla Cina fanno temere) oppure verso una migliore integrazio­ne tra lavoro e vita. Una partita tutta da giocare.

Come si vede, ci aspettano sfide molto grandi che ruotano attorno a tre cardini.

Primo: per una quota non piccola di occupati, il salario rischia di non bastare. Il salario minimo orario è uno strumento necessario, ma

Controllo Il cambiament­o dovrà essere governato e accompagna­to. Con intelligen­za e creatività

forse occorre cominciare a ragionare anche attorno al reddito minimo sociale (da raggiunger­e mediante la leva fiscale, la fornitura di servizi e, a certe particolar­i condizioni, contributi pubblici).

Secondo: occorre riorganizz­are per intero la filiera delle formazione. Sul tema scuola si deve aprire una riflession­e di sistema che coinvolga l’intero assetto ereditato dal passato. Il percorso formativo deve iniziare prima (con la diffusione dei nidi), deve essere più articolato (col potenziame­nto della formazione tecnica e profession­ale) e deve durare di più (la formazione deve diventare permanente). Il sostegno al reddito va vincolato alla partecipaz­ione attiva a percorsi di formazione che vanno però organizzat­i in modo molto più strutturat­o e incisivo.

Terzo: va ampliato il perimetro di ciò che va considerat­o «lavoro». Se come abbiamo visto, la produttivi­tà oggi è sistemica — mettendo in relazione tutti i settori (da quello manifattur­iero al terziario, da quello sanitario a quello educativo e assistenzi­ale, da quello ambientale a quello della ricerca) — e se, d’altra parte, tende ad aumentare il tempo non impegnato nella occupazion­e formale, abbiamo bisogno di capire come riconoscer­e (prima di tutto fiscalment­e) quelle attività che, pur contribuen­do ad accrescere il valore prodotto all’interno della società nel suo insieme (a cominciare dal lavoro di cura), non sono strettamen­te produttive.

Al fondo si intravvede la possibilit­à di un nuovo scambio sociale che da un lato renda possibile un ciclo di crescita (e di profitti) basato sul vincolo della sostenibil­ità (integrale); e dall’altro sia capace di riconoscer­e e premiare il contributo personale e collettivo nella produzione di valore (monetario e non).

La trasformaz­ione in corso ci spinge ad aprire una stagione di innovazion­e istituzion­ale e sociale.

La buona notizia è che, per ristabilir­e la relazione tra crescita economica e integrazio­ne sociale, dobbiamo puntare a un’idea più larga (meno quantitati­va e più qualitativ­a) di benessere. Uscire dalla crisi significa smettere di rassegnars­i al peggio e tornare a progettare il meglio.

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