Il rock del dissidente
In «Leto» il ritratto di un gruppo di giovani musicisti che sogna la libertà in Unione Sovietica Successo di Serebrennikov, arrestato in Russia Putin al Festival: io non controllo i magistrati
I l regista Kirill Serebrennikov ha dovuto restare a Mosca, agli arresti domiciliari, con un’accusa (appropriazione di fondi per il teatro che dirigeva) che molti hanno considerato un pretesto per fermare le sue messe in scena contro il potere. E nonostante una lettera ufficiale della Francia per permettergli di essere presente, inviata a Putin che si è nascosto farisaicamente dietro l’impossibilità di influenzare «una giustizia indipendente». Ma il suo film Leto (Estate), ha conquistato la platea della stampa che ieri l’ha applaudito a lungo. E a ragione, va detto. Perché l’esecuzione dell’ordinanza, a metà agosto dell’anno scorso (quando le riprese erano quasi totalmente completate), non sembra aver danneggiato il ritratto appassionato e divertito di una generazione, quella che all’inizio degli anni Ottanta cercava di imporre il rock tra le rigide maglie della censura brezneviana.
A illuminare il film la figura del ventenne Viktor Coj, kazako con un padre di origini coreane (nel film è interpretato dal somigliantissimo Teo Yoo, coreano, ma di nascita tedesca), che arriva a Leningrado — oggi San Pietroburgo — per far conoscere le sue canzoni. Sono anni in cui il rock è considerato musica underground, cantata in pubblico sotto gli occhi severi di alcuni «commissari» che reprimono sul nascere ogni forma di partecipazione men che composta (è la prima scena, esilarante).
I testi parlano soprattutto della voglia di libertà ma in termini pre-politici, esistenziali, capaci però di dar forma a quello stato di insofferenza per il conformismo più soffocante che avrebbero spinto le nuove generazioni a prendere coscienza della loro situazione e a spingerle verso il cambiamento (che sarebbe arrivato di lì a qualche anno con la Perestroika).
Coj trova nel leader degli Zoopark, Mike Naumenko (Roman Bilyk) e in sua moglie Nataša (Irina Staršenbaum) i suoi angeli protettori, il primo guidandolo e incitandolo a migliorare la sua musica, la seconda facendo i conti con il fascino che esercita. Ma le storie personali si stemperano subito nel ritratto collettivo di una generazione che sogna con la musica che arriva dall’america, che cura con l’alcol la propria insoddisfazione, che combatte con la censura (da antologia la scena con la dirigente del circolo che vaglia i testi delle canzoni per capire se rispettano le linee guida di uno zdanovismo fuori tempo) e immagina comportamenti che non può permettersi. Ma che il film mette in scena con una serie di intermezzi sognati, sulle note delle canzoni dei Talking Heads di Iggy Pop di Lou Reed e altri, rielaborate con interventi grafici sorprendentemente pop che ne sottolineano l’«irrealtà» (come sottolinea anche uno strano personaggio che fa da guida e coscienza dialogando con gli attori e lo spettatore).
Ne esce un film stilisticamente molto libero, destrutturato narrativamente eppure capace di coinvolgere ed emozionare, anche grazie a una fotografia in bianco e nero (di Vladislav Opeliants) che usa il formato panoramico come per abbracciare e tener uniti quei giovani «ribelli senza causa», destinati a morire troppo in fretta (Coj nel 1990, a ventotto anni, investito da un autobus, Naumenko nel ’91, a trentasei per un incidente domestico) ma capaci di segnare in profondità la cultura di un Paese che si stava sgretolando. Anche per merito della loro musica.
Decisamente deludente, invece, l’esordio dell’egiziano A.B. Shawky con Yommedine, «il giorno dell’ultimo giudizio» per la religione mussulmana.
Protagonista è un vecchio lebbroso (interpretato da un autentico malato, Rady Gamal) che vuole conoscere chi è rimasto della sua famiglia e con il piccolo orfanello Obama lascia il protettivo lebbrosario e si mette in viaggio attraverso un Egitto di stenti e miserie. Che il regista racconta con sincera partecipazione ma che non va più in là di una favoletta consolatoria che non si capisce proprio cosa faccia in concorso a Cannes.
Generazione
Le storie personali si stemperano nel racconto di un’intera generazione