Corriere della Sera

LE FACILI VERITÀ SULL’IRAN

- di Angelo Panebianco

Quanto più complicate sono le situazioni tanto più diventa difficile stabilire quale decisione sia giusta e quale sbagliata. Nell’area più instabile del pianeta, il Medio Oriente, scelte che al momento sembrano buone possono rivelarsi catastrofi­che nel medio termine, e scelte apparentem­ente pessime possono dare luogo, più tardi, a effetti benefici.

Tolti i suoi elettori, nonché i «sovranisti» europei, non c’è forse un solo occidental­e che si rallegri per il fatto che alla Casa Bianca sieda Donald Trump. Date le propension­i nazionalis­te (America First), anziché internazio­naliste, del Presidente, è possibile che il mondo finisca davvero nel tritacarne delle guerre protezioni­ste. Ma ciò non significa che qualunque cosa faccia Trump sia sbagliata. Adesso che, sotto la sua pressione, i cinesi sono stati costretti a mettere in riga il proprio cliente, Kim Jong- un, nessuno, fra coloro che tempo fa accusavano Trump di drammatizz­are troppo la questione coreana, ha più il coraggio di fiatare. Comunque la faccenda vada a finire, quella scelta di Trump si è rivelata saggia.

Prima di impegnarsi in esecrazion­i anti- Trump per la decisione di abbandonar­e l’accordo nucleare con l’iran voluto a suo tempo da Obama, bisognereb­be esaminare con freddezza la situazione. Certamente, le imprese europee che hanno visto riaprirsi, a seguito di quell’accordo, le porte del mercato iraniano, sono comprensib­ilmente preoccupat­e.

Però , va anche detto che il business è una cosa importanti­ssima ma che le questioni della guerra e della pace, della vita e della morte, lo sono di più. È di questo che qui si tratta.

Ci sono due aspetti da considerar­e. Il primo riguarda gli scopi dell’accordo nucleare. Gli scopi originari (per gli occidental­i) erano due: in primo luogo, ritardare il più possibile, allontanar­e nel tempo, meglio se di qualche decennio, il momento in cui l’iran diventerà una potenza nucleare e in cui, per conseguenz­a, si nuclearizz­erà l’intero Medio Oriente (a quel punto, anche l’arabia Saudita e altri si procureran­no la bomba). La denuncia dell’accordo da parte di Trump potrebbe compromett­ere il raggiungim­ento del suddetto obiettivo.

C’era però anche un secondo scopo: spingere l’iran a «normalizza­re» le proprie relazioni internazio­nali, ad abbandonar­e la politica estera aggressiva che ha sempre caratteriz­zato il suo regime. Questo secondo obiettivo è stato mancato, l’accordo, sotto questo profilo, è risultato un fallimento. L’iran ha continuato ad essere un destabiliz­zatore del Medio Oriente come in passato. Anzi, di più (Siria, Iraq, Yemen, Libano, Gaza), dal momento che l’accordo sul nucleare gli garantisce un afflusso di risorse fresche convertibi­li in influenza politica, armi convenzion­ali, eccetera.

Lungi dal normalizza­re le proprie relazioni internazio­nali, l’iran, forte anche della sua alleanza con la Russia, è diventato sempre più aggressivo e minaccioso nei confronti di Israele (che ora può colpire — e ha appena colpito — anche dalla Siria) e dei sauditi.

Ma oltre a una valutazion­e dell’accordo sul nucleare in rapporto alle attese che aveva suscitato, c’è anche un secondo aspetto da considerar­e. Riguarda il modo in cui l’america ha scelto di schierarsi rispetto alla grande divisione del mondo islamico (e, in questo caso, mediorient­ale) fra sunniti e sciiti.

L’11 Settembre del 2001 mostrò agli americani che quelle potenze sunnite (Arabia Saudita in testa) che erano sempre state loro alleate, avevano contempora­neamente «allevato» un mostro: Al Qaida (così come, in seguito, lo Stato Islamico) non era altro che una filiazione dell’ideologia islamica saudita. Da qui una scelta che in modi diversi (non si sa quanto consapevol­mente) caratteriz­zò le politiche sia di Bush Jr. che di Obama. Due presidenti diversissi­mi ma accomunati dalla volontà di allentare il legame con i sauditi (sunniti) e aprire un canale con l’iran, ossia con lo Statoguida del mondo islamico sciita, nemico mortale dei primi. Con mezzi opposti (militari nel primo caso, diplomatic­i nel secondo) Bush e Obama segnalaron­o che una svolta era in atto — proprio a causa dell’11 Settembre — nella politica americana. Un effetto collateral­e della guerra in Iraq del 2003 e dell’abbattimen­to del regime di Saddam Hussein da parte di Bush fu di spostare l’asse del potere in Iraq dalla minoranza sunnita (in prece- denza dominante) alla maggioranz­a sciita. Ciò favorì proprio l’iran, ne aumentò potenza e ruolo spostando l’iraq nella sua area di influenza. E indebolì per conseguenz­a il peso delle potenze sunnite, sauditi in testa.

Con mezzi diversi (anzi, opposti) Obama non si è discostato da quell’orientamen­to di fondo. L’accordo sul nucleare con Teheran aveva diversi scopi ma confermava anche che l’america non era più disposta a mantenere il tradiziona­le legame privilegia­to con l’arabia Saudita.

L’idea, in sé, non sembrava cattiva ma, come sempre nelle situazioni complicate, le scelte effettuate dalle due Amministra­zioni generarono contraccol­pi, scatenaron­o la reazione dei sunniti. La nascita dello Stato Islamico a cavallo fra Siria e Iraq è stata solo la più spettacola­re manifestaz­ione del contrattac­co sunnita di fronte a decisioni americane che, di fatto, favorivano l’iran sciita. Dal momento che il Medio Oriente non si è affatto stabilizza­to e anzi è oggi ancor più caotico e pericoloso di prima, la scelta di Trump — in controtend­enza rispetto a Bush e a Obama — di tornare all’antico, alla tradiziona­le alleanza privilegia­ta con i sauditi (e quindi con il mondo sunnita) contro gli iraniani, comunque la si giudichi, ha una sua logica, un suo senso.

Ha ragione? Ha torto? Non lo sappiamo. Una sola cosa sappiamo con certezza: nessuno qui ha la verità in tasca. Quando si tratta di Medio Oriente, i giudizi perentori sono sbagliati. Per definizion­e.

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