Corriere della Sera

Patrizia Favero La sorella del musicista ucciso in Afghanista­n nell’83 «Affiancò i mujaheddin contro i russi. Le sue armi? Una cinepresa»

- Di Stefano Lorenzetto

Accadde 35 anni fa. Il 20 ottobre 1983, un giovedì, Costantino Favero stava tornando dalla messa mattutina. Il signor Curti, suo vicino, capì subito che l’anziano non aveva ancora letto il Corriere della Sera. Allora lo prese sotto braccio e si offrì di accompagna­rlo a casa. Lì, aperta la pagina 10, il quasi ottuagenar­io seppe. In fondo alla sesta colonna, c’era una notizia di appena 19 righe, senza titolo, preceduta da un pallino nero: «Un giornalist­a australian­o di origine italiana, Raffaele Favero, di 38 anni, è stato ucciso il 10 ottobre scorso nel corso di un bombardame­nto sovietico in Afghanista­n».

Il destino aveva deciso che il batterista dei Profeti morisse per il Profeta. Era il 1966 quando Raffaele Favero entrò nel complesso milanese, giusto in tempo per registrare «Bambina sola», il primo 45 giri di successo, che aveva sul retro la canzone «Le ombre della sera», scritta da Lucio Battisti. Poi sarebbero venuti il Festivalba­r, il Cantagiro, il Festival di Sanremo e altri brani celebri: «Gli occhi verdi dell’amore», «La mia vita con te», «Lady Barbara». Ma senza di lui. Perché Favero cambiò il suo nome in Rafiullah, si convertì all’islam e andò in Afghanista­n a combattere con i mujaheddin contro gli invasori sovietici.

«Non lo definisca foreign fighter, Raffaele non lo era», si raccomanda l’unica sorella, Patrizia, nata 22 mesi dopo di lui. Jill Hutchings, l’australian­a che Rafiullah aveva sposato nel 1974, rimprovera­va il marito: «Non è la tua guerra santa». Ma lui le rispondeva: «Questa è la guerra santa di tutti». La lasciò per sempre a Maryboroug­h, 170 chilometri da Melbourne, con tre figli da crescere, Adam, 7 anni, Jana, 5, e Rhea, 3. A «Patrizina sorellina buona», come la chiamava nelle lettere, nella casa di Milano non resta neppure il disco «Bambina sola». «Lo chiesi anni fa a Brioschi, il Renato dei Profeti. Ma non me lo inviò».

Che tipo era suo fratello?

«Un irrequieto, vittima della sindrome di Ulisse, la stessa che nel 1911, a 7 anni, spinse il fratello gemello di mio padre a fuggire da Mathi, nel Canavese, per andare a caccia di leoni. Lo acciuffaro­no nel porto di Genova, imbarcato da clandestin­o su una nave diretta in Africa».

Anche Raffaele scappò di casa?

«No, però fin da bambino non è mai stato sereno, nel suo sguardo scorgevi sempre un altrove. Ricordo che rubò a mia madre i soldi per comprarsi un proiettore 8 millimetri. Ci fece credere d’averlo vinto a una lotteria. Mamma si accorse dell’ammanco e lo riempì di botte. Da adolescent­e lo aspettava dietro la porta con il battipanni».

Per quale motivo?

«Rincasava alle 3 di notte. Era sempre in giro per festini. Conobbe, non so come, la scrittrice Fernanda Pivano e l’attore Glauco Mauri. Poi prese a frequentar­e strani giri. Cominciò a fumare l’hashish. In seguito passò all’oppio. Lo faceva vomitare però gli regalava l’oblio. Una volta mi confessò: “Nella vita voglio fare tutte le esperienze, esclusi i rapporti omosessual­i”».

I suoi non si occupavano di lui?

«Mio padre lavorava alla Snia Viscosa ed era molto preso dal lavoro. Progettava impianti per le fibre tessili. Un giorno ci annunciò trionfante: “Abbiamo inventato il terital, non ci sarà più bisogno di stirare le camicie”. Mia madre, nata a Torino, si era sposata a 20 anni. A Milano si sentiva prigionier­a. Giocava a pettinare Raffaele e me come se fossimo bambole.

Disse: voglio filmare da vicino un carro armato in movimento. Finì stritolato, ma gettò la macchina da presa per salvare quelle immagini

Non è mai stata una mamma affettuosa. Forse avrebbe avuto bisogno di un impiego per realizzars­i. Quando mio fratello decise di partire per un lungo viaggio fra India, Nepal e Pakistan, i miei genitori ne furono quasi sollevati».

Che cosa andò a cercare in Oriente?

«Qualcosa per cui valesse la pena di vivere. Papà fu bravo: non lo ostacolò, lo lasciò libero. Là Raffaele imparò il pashto e l’urdu. Conobbe Sayedmir Sainbaba, un santone pakistano formatosi in Inghilterr­a, che gli curò un’epatite virale e gli parlò di Allah. Mio padre fu contento che suo figlio avesse incontrato Dio, anche se la visse come una perdita definitiva. In ufficio i colleghi lo vedevano piangere. Poi una mattina ricevette una lettera da Sainbaba. Finiva con queste parole: “Oh oh oh, I am dying”, sto morendo, e gli raccomanda­va di amare Rafiullah, perché era un bravo ragazzo, incamminat­o su una buona strada».

Suo padre non gli aveva parlato di Dio?

«Sì, certo, e tutte le sere, al momento di andare a letto, gli faceva recitare con me la preghiera all’angelo custode. A 16 anni lo mandava all’oratorio nella parrocchia del Corpus Domini, in via Canova. Ma si vede che su di lui fece più presa Allah».

Lei non ha mai provato l’impulso ad abbracciar­e il Corano?

«No, neppure quando nel 1973 andai a trovare Raffaele nella valle dello Swat. Ci arrivai in Mini Minor con una coppia di amici. Il mio fidanzato non poté venire a causa dell’obbligo di leva. Partimmo il 10 agosto e tornammo a ottobre. Quando vidi come viveva mio fratello, piansi per un giorno».

Posso immaginare.

«Abitava a Bannu, in una tenda, allevando tre cavalli waziri scheletrit­i e coltivando la terra con il suo amico Billawar Khan, al quale avrebbe voluto darmi in

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