Raf, il batterista che lasciò i Profeti e morì per l’islam
sposa».
Perché suo fratello si unì ai mujaheddin?
«L’ho capito solo quando sono stata nella sua casa in Australia, per un funerale senza la salma. In camera, sul comodino, ho trovato il libro Morire per Kabul di Lucio Lami, nel quale l’inviato di guerra del Giornale di Montanelli auspicava l’arrivo di un cronista coraggioso che raccontasse i massacri compiuti dai sovietici. Accanto a quella frase, Raffaele aveva annotato a matita: “Rafiullah”. Per questo partì e strinse amicizia con Ahmad Massoud, il Leone del Panshir».
Dov’è sepolto suo fratello?
«A Urgun. Fu ucciso lì. Lo inumarono nella nuda terra, senza bara, secondo il rito islamico. Il mullah Jalaluddin Haqqani lo proclamò shahid, martire della guerra santa. Durante l’orazione funebre disse: “Credetemi, migliaia di persone sono diventate shahid, ma io non ho mai provato il dolore che provo ora”. Eppure Raffaele non aveva mai sparato un colpo».
Allora perché portava il kalashnikov a tracolla?
«Tutti i musulmani impegnati contro gli usurpatori lo avevano. Ma la sua unica arma era la cinepresa super 8. Con quella filmò i bimbi afgani sfigurati dalle mine a farfalla dei russi e gli elicotteri rivestiti di titanio, con puntatori laser, mandati da Mosca a scaricare razzi a guida termica sui partigiani in sandali. Raffaele trasmetteva da Zurmat il notiziario nazionale dei mujaheddin. Grazie a lui Mino Damato, inviato della Rai, fu il primo al mondo a fare una diretta via satellite dalle zone di guerra».
In che modo morì suo fratello?
«Non restò vittima di un bombardamento. Fu stritolato da un carro armato che i mujaheddin avevano strappato ai russi. Alla guida vi era un disertore dell’armata rossa, che venne immediatamente giustiziato dagli afgani. Non s’è mai capito se fu un incidente o un investimento volontario. Raffaele aveva spiegato a un amico: “Voglio filmare un carro armato in movimento, in modo che agli spettatori sembri che stia per passare sopra di loro”. Invece passò su di lui, schiacciandolo completamente dal ventre ai piedi. Morì dissanguato dopo 20 minuti. La sua unica preoccupazione fu di lanciare lontano la cinepresa, perché le immagini non andassero perdute. Si sente un urlo e poi si vede una scena indistinta».
È stata sulla tomba di Raffaele?
«Non era possibile. Troppi rischi. Nel dicembre 1983 ci provò sua moglie, portandosi appresso i bambini. Tinse di nero i loro capelli biondi, lo stesso colore che avevano quelli di Raffaele nel 1972 quando Jill lo vide per la prima volta sul tetto di un pullman in Pakistan. Teneva nascosta la più piccola, Rhea, sotto il burqa. Ma non riuscì ad arrivare a Urgun».
Odia i russi per quello che è accaduto a suo fratello?
«Non coltivo alcun risentimento. Li ho frequentati a lungo. Lavoravo per un’azienda della Brianza che fabbrica bottoni. Viaggiavo in tutto il Medio Oriente. Dopo le primavere arabe, per ragioni di sicurezza la ditta ha preferito farmi seguire la Russia. Una sera al tramonto ho immaginato di vedere la tomba di Raffaele mentre sorvolavo le montagne color viola dell’afghanistan».
Si fida di Vladimir Putin?
«Non mi fido per niente. È un dittatore».
Ha senso che l’esercito italiano resti in Afghanistan?
«Credo di sì. Aiuta la popolazione ad affrancarsi dai talebani».
Che differenza c’è tra Rafiullah e i moderni foreign fighter arruolati con l’isis?
«Ci ho riflettuto tante volte. Sono sicura che non sarebbe mai diventato un terrorista. Mi pare d’averlo qui al mio fianco, mentre le dico questo».
Che cosa pensa quando legge notizie di attentati e di decapitazioni compiuti dai jihadisti?
«Che sono pazzi. Mio fratello ha dato la sua vita, non l’ha tolta a nessuno. È andato volontariamente incontro alla morte per difendere la libertà degli afgani. Ci è stato riferito che Raffaele, la mattina in cui restò ucciso, aveva detto: “Se questo è il mio destino, lo accetto”». ● La vedova Jill non si è mai risposata. Il figlio Adam, 40 anni, vive in Perù; le figlie Jana, 40, e Rhea, 38, in Australia