Modernismo dal volto umano
Il Pritzker assegnato al progettista indiano Doshi pone i riflettori sulle opere di qualità realizzate con budget limitati nei Paesi lontani dalla cultura occidentale. Tra Asia e America Latina, esempi di rispetto ambientale e sociale
Fino a pochi anni fa le Storie di Architettura Moderna erano organizzate secondo una modalità che vedeva alcune, grandi figure, tutte provenienti da Europa e Nord America, dominare la scena, mentre i capitoli finali erano dedicati a quei contesti «minori» in cui l’aura del Movimento Moderno era arrivata con ritardo e risultati marginali.
Progressivamente questo spazio si è allargato mostrando un mondo di ricerche sempre più ricco e intrecciato in una sorta di network dei «Paesi non allineati» dell’architettura moderna, lontani abbastanza dai centri principali da produrre opere inattese e corsare. Alcuni storici hanno provato a liquidare tutto sotto l’ampio ombrello del Tropical Modernism, ma non basta a spiegare tanta qualità e diversità, mentre studi influenzati dalla cultura postcoloniale rivelano contesti geografici alternativi per originalità delle soluzioni progettuali.
La recentissima attribuzione del Pritzker Prize 2018 all’architetto indiano Balkrishna Doshi porta una parziale compensazione a una lettura del mondo ancora molto influenzato da punti di vista ristretti e una sostanziale ignoranza su quanto di qualità è stato costruito nel secondo Novecento tra Asia, Africa e Sud America. Lo stesso Doshi viene derubricato come allievo di Le Corbusier in India, fatto reale e importante, ma limitante di un personaggio che in questi ultimi cinquant’anni ha costruito un’originale via indiana alla modernità.
Questo potrebbe essere raccontato di altri «campioni» che nel secondo dopoguerra di un mondo segnato dalla Guerra Fredda hanno aperto la strada alla cultura modernista nei loro Paesi cercando ogni volta d’individuare una misura e linguaggi adatti a confrontarsi con paesaggi e culture locali così differenti.
Nella stessa India l’opera di Charles Correa, attraverso progetti per scuole, ashram, musei, residenze a bassissimo costo giocate su geometrie elementari e colori figli della terra, è stata un riferimento importante per la cultura post-moderna internazionale. Nel vicino Bangladesh, Marina Tabassum, una donna ar-
chitetto musulmana, ha vinto l’ultima edizione dell’aga Kahn Awards for Architecture con il progetto per una piccola moschea realizzata nella periferia di Dacca. Un’opera a bassissimo costo e in mattone, composta da uno spazio intimo e domestico, segnato dalla lezione dell’americano Louis Kahn che proprio a Dacca ha lasciato un segno architettonico importante, ma dallo sviluppo finale originale
per un contesto così povero in cui l’idea di qualità può fare la differenza. Sempre nel subcontinente indiano, a partire dagli anni Cinquanta, Geoffrey Bawa ha portato avanti in Sri Lanka una serie di opere sofisticate — mediazione tra eredità coloniale, forza della Natura e linguaggi tradizionali — in un crescendo che è culminato con il palazzo del Parlamento realizzato nel cuore della capitale Colombo.
In Centro-sud America autori come Villanueva in Venezuela, Eladio Dieste in Uruguay, Ricardo Porro a Cuba e Luis Barragan in Messico, hanno immaginato e realizzato opere visionarie, organiche per legame con il paesaggio, capaci di un’originalità appassionante ma sempre radicate nei luoghi di appartenenza.
Si tratta di autori che hanno creduto nella modernità come strumento di crescita sociale e culturale dei propri mondi ma che, insieme, hanno cercato una via autonoma, attenta alla Natura e alle comunità che li avrebbero abitati. Il rispetto della dimensione umana come misura dello spazio, la forte intelligenza ambientale di queste opere combinate a budget sempre limitati, fa di questi lavori dei precursori di contemporaneità da cui dovremmo tutti imparare.