L’amore gay ai tempi dell’aids tra impeto e rinuncia
Crisi di coppia per riflettere sul comunismo
CANNES Glutei maschili in tutte le salse in Plaire, aimer et courir vite di Christophe Honoré, dove un ragazzo di provincia ha una storia d’amore con uno scrittore malato di Aids nella Parigi degli Anni ’90. Ma l’omosessualità da decenni a Cannes ha smesso di essere una notizia, piuttosto lo «scandalo» è che l’incontro su un film francese (per i quali si scomoda il delegato generale Frémaux, facendo capolino in sala) vada praticamente deserto, segno di un’edizione stravolta nella programmazione ma non solo.
Honoré rivede se stesso nei due protagonisti, impersonati da Vincent Lacoste e Pierre Deladonchamps, che per il regista «ha un approccio alla nudità molto libero, non così frequente per un uomo». Con una valigia piena di sogni, Honoré abbandonò la provincia bretone «per andare a Parigi. Qui volevo ricordarmi lo studente che ero, il mio desiderio di incontrare uno scrittore, cosa mai avvenuta». Lui rappresenta «il modello a cui puntare» (si chiama Tondelli, come lo scrittore italiano che non si risparmiò per combattere l’aids); l’altro, il giovane, «è un’evocazione della mia gioventù».
Ci sono riferimenti letterari e cinematografici, una scena al cimitero in cui riposa Truffaut: «Andarvi fu una delle prime cose che feci. In me c’era il rifiuto di essere terrorizzato dalla morte. Ho cercato di realizzare un film carnale e intimo, con un tono leggero». Nostalgia canaglia? «Non volevo esserlo, ma dopo tutto non è male restare vicino ai ricordi. Continuo a pensare a persone che non ho potuto incontrare e che mi hanno ispirato. C’è un desiderio di consolazione, l’aids ha influenzato la mia generazione, appartengo a quel genere di gay per cui parlarne era complicato e ingannevole». Il titolo, Piacere, amare e correre rapidamente, rimanda «alle due velocità» in cui tra impeto e rinuncia vivono i due personaggi: la voglia di fuga e l’urgenza della giovinezza, e il sentimento della morte che avanza.
Ci sono amori clandestini, la notte, accanto a giardinetti e palazzi anonimi; c’è la libertà di amarsi come si vuole: non è questo ciò che ha voluto dirci Luca Guadagnino in Chiamami col tuo nome? Se poi a Honoré, che è metà scrittore e metà regista, citi il film che nel 2017 vinse il Grand Prix, 120 battiti al minuto, ovvero quando la Francia scoprì l’incubo dell’aids, risponde che «non si possono fare paragoni solo perché entrambi parliamo di omosessuali». Vincent Lacoste è nato nell’anno in cui è ambientato il film: 1993.
Èla disperazione della vita a unire il film francese Plaire, aimer et courir vite (Piacere, amare e correre svelto) di Christophe Honoré e quello polacco Zimna wojna (Guerra fredda) di Pawel Pawlikowski. Nel primo lo scrittore gay Jacques Tondelli (affidato a Pierre Deladonchamps dopo il forfait di Louis Garrel) vuole assaporare fino all’ultimo la vita che gli concede la sua sieropositività — siamo nel 1993 — e passa da un’avventura all’altra, preoccupato solo di non sprecar né tempo né occasioni. Così finisce per vivere malamente l’incontro con Arthur (Vincent Lacoste), che invece sembra cercare qualcosa di più profondo. Omosessuale militante, Honoré ricostruisce il periodo dell’emergenza Aids come «omaggio» ai tanti intellettuali morti, dallo scrittore italiano cui prende il cognome del protagonista a Koltès di cui si vede la tomba. Cancella ogni senso di colpa e punta tutto sulla forza espressiva degli attori ma finisce per perdere ogni empatia: Jacques e Arthur (e l’amico Mathieu, cioè Denis Podalydès che dovrebbe ricordare Serge Daney) assomigliano a marionette di un ballo autodistruttivo e compiaciuto, che solo nel finale sembra capace di coinvolgere lo spettatore. Più emozionante invece il film polacco, che già dal bianco e nero e dal formato quadrato svela il suo voler riflettere sui tempi passati. Dal ‘49 a metà dei ‘60 segue il contrastato amore tra Wiktor (Romasz Kot) e la più giovane Zula (Joanna Kuling), cantante in un gruppo folkloristico. Quando lei non lo segue all’ovest — Wiktor diventerà jazzista a Parigi — quella che era una storia d’amore sotto la cappa del comunismo si sfrangia in un ritratto fin troppo esplicito dello straziato popolo polacco, soffocato in patria ma infelice all’estero. Pawlikowski costruisce le scene con indubbia abilità, esaltate anche dalla fotografia di Lukasz Zal, ma le peripezie dei due amanti, che si inseguono e si perdono continuamente, finiscono per rivelare la loro meccanicità, schiacciate dal bisogno di una eccessiva didascalicità.