«M» di Santoro, senza mezzi è impossibile fare buona fiction
Stavo preparandomi a seguire la prima delle quattro puntate di «M» dedicate al caso Moro; leggevo che Michele Santoro vuole candidarsi al cda di Viale Mazzini; mi veniva in mente che in fondo è stato lui l’inventore della tv di piazza (che oggi ha tanti epigoni e non lievi conseguenze), del populismo catodico, del «servire il popolo» e mi chiedevo se questo suo passato fa curriculum. Poi sono arrivate le immagini di «M», i 55 giorni del rapimento di Aldo Moro, il ripudio del samarcandismo, sostituito ora da una povera teatralità, nel senso minore del termine, quando teatralità significa sia ristrettezza di mezzi sia mancanza del senso del tragico e tutto si risolve in manierismo, sociologismo, parodia (Rai3, giovedì, ore 21,05). Senza mezzi (è l’unica scusante di Santoro), è impossibile fare buona fiction; non basta la buona volontà o l’alibi che tutto ciò che viene messo in scena è «vero» o una suspense alimentata da nuovi sospetti (alias nuove rivelazioni).
Ognuna delle quattro puntate prevede al centro della scena un protagonista di quegli anni: Giulio Andreotti (interpretato da Remo Girone), Enrico Berlinguer, Tommaso Buscetta e Licio Gelli (a dare voce e volto a Bettino Craxi sarà il figlio Bobo). Sembra la versione amatoriale del Divo di Sorrentino, che già di suo stinge nel grottesco. A tirare le fila, ecco Mino Pecorelli (Carmelo Galati), direttore di Op-osservatore Politico, ucciso in circostanze misteriose a un anno dal rapimento di Moro. Pecorelli incarna la zona d’ombra: servizi segreti o deviati, false piste, complotti, misteri. A discutere in studio (poco, in verità), c’erano Annalisa Chirico, Marco Damilano, Stefano Limiti, Ilaria Moroni, Lanfranco Pace e Sara Rosati. Santoro sembra provare nostalgia per quel tempo, giorni di «avventura, passioni, sangue, amore, odio», specie se confrontato con quello «anemico» di oggi, capace solo di «matrimoni d’interesse».