La linea della leggerezza
L’asse M5s-lega: spese in deficit, archiviamo l’austerità
La voglia di mani libere all’estero fa temere un «effetto Varoufakis». Il dogma M5s-lega «spese in deficit, archiviamo l’austerità» preoccupa l’europa.
Si potrebbe chiamare «strategia della leggerezza» in materia di conti pubblici. Un approccio fiducioso, quasi fideistico, qualcuno direbbe «naif», sulla possibilità di convincere l’europa che un’italia determinata a spendere in deficit va sostenuta. E in prospettiva si risolleverà. Lo psicodramma che Movimento Cinque Stelle e Lega stanno rappresentando sul loro «contratto» sembra avere due pubblici paralleli. Uno è quello dei protagonisti, che annuisce e si compiace a ogni minaccia di scontro e di trattativa «pugni sul tavolo» con le istituzioni europee. L’altro è il pubblico che assiste a una marcia di avvicinamento al governo con una miscela di incredulità e sconcerto per la faciloneria dell’approccio ai problemi. E spera sia una pantomima destinata a finire nell’impatto con la realtà.
Eppure, per ora la realtà sembra un concetto astratto, comunque adattabile alle circostanze. Il rispetto dei trattati, l’attenzione nervosa degli investitori esteri, le reazioni degli altri Paesi europei vengono osservati come un rumore di fondo che in qualche modo verrà cancellato. «Non possiamo morire di austerità. E l’europa ci deve dare una mano. Ci devono lasciare provare, altrimenti ci diremo sempre che poteva funzionare e non ce l’hanno fatto fare. Sappiamo che dovremo discuterne con Bruxelles, e che qualcuno si arrabbierà, nell’europa del Nord, in Germania. Ma noi siamo stati votati dal popolo». È questo il mantra ripetuto quasi come un esorcismo. Mostra un’italia grillina e leghista ripiegata su se stessa e prigioniera di una visione che rischia di essere smentita nei mesi a venire.
L’ipotesi di affidare a due «tecnici» i ministeri degli Esteri e dell’economia potrebbe essere un argine contro eventuali deragliamenti del governo nascente. È difficile, però, che diventino una barriera efficace se l’esecutivo deciderà di applicare il «contratto» che sta prendendo confusamente forma: nonostante il ruolo di garanzia del capo dello Stato, Sergio Mattarella, riconosciuto ieri anche dal presidente francese Macron. L’accenno a un’uscita dall’euro, poi scomparso, ha seminato allarme. Quanto ai 250 miliardi di euro di debito da cancellare, viene sottovalutata la prospettiva di un’implosione del sistema bancario italiano. La parola d’ordine dei contraenti è un «no all’austerità» legittimato, a loro dire, dal voto popolare. E ha come corollario la richiesta di avere mano libera, o quasi, sulla spesa pubblica per almeno un paio d’anni.
«Perché Francia e Germania sì e noi no? Tanto, il debito pubblico è cresciuto anche in questa fase di sacrifici che hanno solo impoverito l’italia», è la tesi. Non è un problema di «barbari» contro popoli civilizzati, come sostiene il Financial Times sorvolando sulla «barbarie» della Brexit inglese. Ma certo è una questione di tenuta dei conti pubblici, che si riflette sull’intera Unione Europea. È il tema del governo dell’immigrazione sul quale l’italia rischia non di presidiare i confini, ma di isolarsi con un carico crescente di disperati, aiutata ancora meno di prima dall’ue. In privato, le ambasciate occidentali spiegano di temere l’inesperienza della classe dirigente dei Cinque Stelle, e le inclinazioni filorusse della Lega: saldate da un euroscetticismo che sembrava essersi attenuato almeno nel M5S.
Le inquietudini sono legittimate dallo «stop immediato alle sanzioni contro la Russia», contenuto nel programma; e dall’«apprezzamento» arrivato ieri da «fonti vicine al Cremlino» per gli «sforzi» di Lega e M5S. La bozza parla anche di «rivalutare la presenza dei contingenti italiani nelle singole missioni internazionali, distanti dall’interesse nazionale». Il Wall Street Journal ha chiosato il documento Di Maio-salvini sostenendo che in passato «avrebbe fatto crollare i mercati. Ora invece c’è solo lo stupore degli investitori». E così, mentre sull’asse Roma-milano la trattativa prosegue in una bolla di pericolosa autoreferenzialità, si parla di un’italia che rischia l’«effetto Yanis Varoufakis».
Il Globalist, un sito statunitense attento ai trend del potere globale, evoca il ministro delle Finanze greco identificato col disastro che nel 2015 portò alla chiusura delle banche in Grecia; e a una dolorosa richiesta d’aiuto alle autorità finanziarie internazionali. «Con una crescita del debito pubblico italiano, diciamo al 145 per cento del Pil», scrive il Globalist, «con la recessione e gli investitori in fuga, un’italia governata da populisti inesperti potrebbe trovarsi in una crisi debitoria entro il 2022». E ogni tentativo di «ricattare i partner europei perché tollerino gli eccessi italiani, potrebbe ritorcersi contro Roma». Magari si tratta solo di previsioni di uccelli del malaugurio. E alla fine non si farà neanche il governo. Ma certi segnali meritano almeno un po’ di attenzione, per evitare che il 2022 arrivi prima.
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