La 19enne dal Pakistan «Mi hanno portata qui e costretta ad abortire»
Farah è studentessa a Verona. Gli audio alle amiche
Farah sarebbe stata ingannata, legata, costretta ad abortire e a tacere. È lei stessa a scriverlo, anzi, a urlarlo, in un momento in cui sfugge al controllo di coloro che sembrano essere i suoi aguzzini: la famiglia. «Mi hanno picchiata e tenuta legata per otto ore per farmi fare l’aborto», è il messaggio che manda all’amica del cuore da un angolo del Pakistan: «Qualcuno con una certa autorità mi venga a prendere in casa».
Farah è pachistana, ha 19 anni e aspettava un bambino. Era arrivata in Italia nel 2008 con la madre, il padre e i fratelli. Vivevano a Veronetta, il quartiere multietnico della città scaligera dove lavorano diversi connazionali. Studentessa di un istituto tecnico, Farah si era innamorata di un italiano conosciuto fra i banchi di scuola, media. Relazione difficile, osteggiata dalla famiglia e letteralmente precipitata in febbraio, quando i genitori della giovane pachistana hanno saputo che la figlia era incinta. «Il nostro bambino doveva nascere in agosto, volevamo sposarci e lo volevamo tenere, avevamo deciso anche il nome», si dispera oggi il giovane intervistato dal Corriere del Veneto. «In febbraio la madre ha convinto Farah a seguirla in Pakistan per il matrimonio di un parente. Il padre era già lì. “Lo convinco a sposarvi” le aveva detto». Ma fra lei e il suo ragazzo c’era un muro altissimo da superare. «Non voleva che sua figlia, musulmana, sposasse un cristiano e tantomeno che avesse un figlio concepito fuori dal matrimonio. Ora stanno cercando per lei un marito del posto».
Il ritorno in Pakistan, a leggere i messaggi di Farah all’amica, è stato un incubo. «Quando chiedo ai miei genitori perché hanno tolto la vita al mio bimbo, mi dicono che questo non è nulla rispetto a quel che ho fatto io. Dicono che anche io ho tolto la vita al loro rispetto in società». Brividi. Nelle parole di Farah c’è tutto lo scontro fra due mondi, il preteso rispetto, l’onore familiare, l’uomo da scegliere. Argomenti sentiti altre volte e spesso a spese di giovani donne di quel Paese. Come nel caso di Sana Cheema, addirittura strangolata per aver rifiutato il matrimonio combinato. «Tutto dev’essere fatto in una volta — scrive ancora quasi a invocare la liberazione —. Sennò stavolta mio padre uccide pure me. Mi tengono in Pakistan perché sanno che qui nessuno mi aiuta». Come Sana, Hina e le altre donne che volevano vivere all’occidentale, Farah si trova a combattere la sua battaglia da una difficile trincea. «Ti prego, chiama l’associazione Amnesty...», dice in una clip audio inviata all’amica.
I rapporti con il padre si erano incrinati da tempo. Nel settembre scorso Farah l’aveva denunciato per maltrattamenti. Ragione per cui era stata accolta in una struttura protetta, il centro antiviolenza Petra. Poi ha chiesto di tornare a casa. «Non c’è alcuna volontà da parte della famiglia di lasciarla libera, le hanno tolto anche i documenti», ha riferito ieri l’assessore ai servizi sociali di Verona Stefano Bertacco. «Stiamo verificando la vicenda — ha precisato la procuratrice Angela Barbaglio, mentre la Farnesina è intervenuta su Islamabad —. Comunque sia, noi possiamo agire solo nel caso in cui la vittima o l’autore del reato sono cittadini italiani». E Farah non lo è.
Il padre del bimbo Era un ragazzo italiano «La famiglia non voleva che avesse un figlio da un cristiano»