A 17 anni fa strage al liceo
Texas, ha usato le armi del padre. Trump: «Farò di tutto». Ma le leggi sono ferme
WASHINGTON Un altro ragazzokiller. Altri 10 morti da aggiungere alla scia delle stragi americane. Nove studenti e un insegnante sono stati uccisi ieri mattina nella High School di Santa Fe, pochi chilometri a sud di Houston, Texas. L’assassino è uno degli alunni. Si chiama Dimitrios Pagourtzis, ha 17 anni. È stato arrestato insieme con un altro compagno di studi, un diciottenne che si sospetta possa averlo in qualche modo spalleggiato. Dimitrios aveva postato diverse foto inquietanti sui suoi account social. Le immagini mostrano una maglietta nera con la scritta «Born to kill», nato per uccidere, e un giaccone verde da militare, contrassegnato da simboli nazisti.
Ecco, dunque, ancora la storia di un giovane descritto dagli amici, «come tutti gli altri». Nessuno, naturalmente, immaginava che Dimitrios, tra una partita nella squadra scolastica di football e un giro di danza nella chiesa Greca Ortodossa, stesse pianificando la carneficina. E invece, secondo il governatore del Texas, era tutto sul suo diario, compresa l’idea di suicidarsi, evitata poi dall’arresto.
Dimitrios aveva messo gli occhi sul fucile d’assalto Ar-15 e sulla pistola calibro 38 del padre. Aveva studiato in Rete come assemblare una bomba rudimentale usando un tubo o una pentola a pressione. E ieri mattina, penultimo giorno di lezioni, invece di unirsi all’allegria dei suoi compagni di studi, ha cominciato a sparare nel mucchio.
Lo sceriffo di Santa Fe, Ed Gonzalez, ricostruisce i fatti. Sono le 8 di mattina. Gli studenti sono appena entrati in classe. Dall’aula di educazione artistica arrivano tre-quattro colpi secchi, poi un’altra scarica. In un attimo è il panico. Professori e custodi gridano agli studenti: «via, via, tutti fuori, correte, non fermatevi». Accorre una delle guardie in servizio nel campus. Affronta il giovane. Sia l’assalitore che l’agente restano feriti.
Sul posto convergono decine di auto della polizia, squadre speciali, unità cinofile, vigili del fuoco. Gli investigatori scoprono gli altri ordigni confezionati da Dimitrios e nascosti dentro e fuori il campus. Le autoambulanze e un elicottero trasportano i feriti negli ospedali. Sono dieci. Otto sono stati curati nel Clear Lake Regional Medical Center. Verso le 12.30 ora locale (le 19.30 in Italia) il dottor Safi Maidan fa il punto: «Abbiamo già dimesso sei pazienti, ma ne abbiamo uno in condizioni critiche e un altro stabile». Altre due persone sono ricoverate all’university of Texas Medical Branch: «un diciottenne e una donna di mezza età, sono gravi», spiega Gulshan Sharma, responsabile della squadra medica.
È la ventiduesima sparatoria in una scuola, se si contano solo quelle del 2018. La più grave dopo quella di San Valentino nel liceo di Parkland in Florida. Tre mesi scivolati via senza alcun cambiamento sostanziale nella legislazione federale e dei singoli Stati in America.
Donald Trump appare scosso davanti alle telecamere: «Oggi è un giorno triste, molto triste. Farò tutto quello che è in mio potere per fermarle e togliere le armi alle persone pericolose». Due settimane fa, il 4 maggio a Dallas, il presidente aveva incassato un’ovazione alla Convention della National Rifle Association, assicurando che non avrebbe mai limitato il diritto al possesso delle armi. Opposta, naturalmente, la reazione dei liceali di Parkland, promotori dalla grande manifestazione di protesta a Washington, lo scorso 24 marzo. Una di loro, Jaclyn Corin twitta, rivolta ai politici: «I nostri ragazzi sono uccisi, ma a voi sembra un gioco. Fate qualcosa».