IL GOVERNO DEL CAMBIAMENTO NON CAMBIERÀ LE PERIFERIE
Il programma La Commissione d’inchiesta della scorsa legislatura aveva studiato a fondo problema e soluzioni Eppure nel contratto tra Lega e M5S sono quasi ignorate
Appena due citazioni fugaci, tra le righe, dentro le oltre cinquanta pagine del contratto. Nessun titolo né paragrafo dedicato: quasi una rimozione. C’è un dettaglio davvero paradossale nel controverso programma che Lega e Cinque Stelle hanno concordato e stanno sottoponendo al vaglio delle loro basi: la magica scomparsa delle periferie. Sì, proprio quelle aree disagiate delle nostre città dove il contrasto tra ultimi e penultimi s’è fatto quasi insostenibile negli anni più recenti; proprio quelle strade senza verde, quei quartieri senza servizi, quei palazzi senza respiro, quel popolo senza speranze che l’ultima speranza aveva riposto nel nuovo corso e dunque nel «governo del cambiamento» che a breve dovrebbe nascere.
Le periferie erano la grande molla di questo cambiamento: avevano decretato il divorzio della gente dal Pd (ormai forte a Roma soltanto in centro e ai Parioli, a Napoli in via Chiaia e in pochi quartieri «chiattilli», a Milano nelle patinate strade dei «danee» e in generale nelle ridotte della borghesia e dell’intellighenzia progressista). E si erano consegnate alla lunga ondata populista, vuoi in versione leghista vuoi in versione pentastellata, diventando infine col voto la «constituency» giallo-verde. Beh, nel contratto di Salvini e Di Maio, la molla s’è inceppata.
La parola «periferie» viene citata solo due volte nei trenta capitoli del documento e sempre senza la dignità di questione autonoma. Al capitolo 18, «politiche per la famiglia e natalità», per proporne il «sostegno» (e ci mancherebbe) dopo gli asili nido per le (sole) famiglie italiane e le politiche per donne e anziani. Al capitolo 23, «sicurezza», sesto paragrafo, «campi nomadi», per snocciolare la notevole analisi secondo cui i campi suddetti sono, per le periferie, un «grave problema sociale». Qua e là si coglie qualche eco del tema generale, come la citazione dei famosi 500 mila «invisibili» sparsi nelle pieghe delle nostre città o il paragrafo sulle occupazioni abusive: un nodo gigantesco di legalità e vivibilità urbana che qui viene tuttavia liquidato in una dozzina di righe assai superficiali. Nemmeno un barlume di idea organica su un passaggio decisivo per la nostra convivenza democratica da qui al futuro prossimo.
Si dirà: se eliminiamo la pressione migratoria scacciando tutti i migranti e cancelliamo la povertà col reddito di cittadinanza (i due autentici capisaldi della campagna elettorale, rispettivamente di Salvini e Di Maio) la fastidiosa faccenda delle periferie sarà risolta di conseguenza. Non è così. Prima di tutto perché non sembra né breve né facilissimo rispedire al mittente mezzo milione di clandestini (bisogna trovarli, fare accordi bilaterali di rimpatrio, reperire i soldi per le missioni relative...) o rendere effettivo un sussidio collettivo di incerta copertura che presuppone una riforma propedeutica e costosa come quella dei centri per l’impiego.
Ma soprattutto perché le nostre periferie erano in grave disagio già prima del grande flusso migratorio che ne ha fatto scoppiare le contraddizioni (si legga «Roma e le sue borgate» di Roberto Morassut per trovare le ragioni antiche di quelle contraddizioni, almeno nella capitale d’italia). E patiscono, prima che la povertà, l’assoluta mancanza di servizi e infrastrutture: l’essere interstizio urbano, luogo di transizione sociale, frattura che Renzo Piano ha cercato di saldare con i suoi rammendi.
Volendo, un’analisi seria era già a disposizione. Sarebbe bastato sfogliare le 600 pagine di relazione con cui la Commissione parlamentare d’inchiesta della scorsa legislatura (nella quale sedevano anche rappresentanti leghisti e grillini) ha concluso un eccellente lavoro di dodici mesi. Qualche idea? Interventi da un miliardo l’anno per i prossimi dieci anni (bruscolini in rapporto a certe cifre faraoniche d’oggi...), un’agenzia nazionale per coordinarli, una tassazione locale ad hoc, una nuova fattispecie di reato per l’occupazione abusiva col metodo del racket, la revisione del codice penale sui reati urbani, misure alternative che rendano effettiva la deterrenza. E, soprattutto, il respiro della questione urbana come questione nazionale. «Che ora quella questione sia sparita del tutto è un sintomo di dissociazione dalla realtà», dice amaro il senatore di Forza Italia Andrea Causin, che della Commissione è stato presidente. Se la democrazia diretta ha davvero un senso, non è da escludere che il tanto invocato «popolo» suggerisca qualche correzione ai suoi distratti campioni.
Svolta
Le aree ai margini delle città hanno lasciato il Pd e si sono consegnate alla lunga onda populista