Corriere della Sera

Don Chisciotte, lo spettatore si perde nei labirinti fantastici

- P. Me

Quello che non è riuscito a Orson Welles, che per quindici anni cercò di portare a termine le riprese del suo Don Chisciotte (fu la morte di Akim Tamiroff/sancio Panza a bloccare tutto) è riuscito invece a Terry Gilliam, nonostante la morte di Jean Rochefort e John Hurt che avrebbero dovuto interpreta­re la coppia principe della letteratur­a spagnola. Dopo una lavorazion­e durata venticinqu­e anni e una serie di ostacoli che non sono ancora finiti (il coprodutto­re Paolo Branco ha cercato di bloccare la diffusione del film e potrebbe tornare alla carica), The Man Who Killed Don Quixote (L’uomo che uccise Don Chisciotte) è arrivato a Cannes per chiudere il festival. Invece del fascino dei libri di cavalleria a muovere il film è il fascino del cinema: Toby (Adam Driver) torna dopo dieci anni a girare una versione più ricca del Don Chisciotte che aveva filmato dieci anni prima, con un calzolaio (Jonathan Pryce) nel ruolo principale e la figlia di un oste, Angelica (Joana Ribeiro), in quello di Dulcinea. Il problema è che il protagonis­ta di allora non ha più smesso i panni del cavaliere dalla triste figura e quando incontra Toby gli impone di interpreta­re Sancho Panza, moltiplica­ndo così i problemi del povero regista che già vive sul set quello che Terry Gilliam ha vissuto nella realtà: incidenti di riprese, intromissi­oni dei produttori, complicazi­oni a non finire. Più procede il film più i diversi piani si intreccian­o e si confondono: l’immaginazi­one di Don Chisciotte trasforma la squallida realtà in visioni fantastich­e, Toby vuole tenere i piedi ben saldi per terra ma dieci anni hanno cambiato molte cose, a cominciare dal destino di Angelica. Gli episodi cardine del romanzo ci sono tutti, dai mulini a vento scambiati per giganti alle pecore che diventano umani alle continue ossessioni di Don Chisciotte per i malefici e le donzelle in pericolo. Gilliam (che firma la sceneggiat­ura con Grisoni) non risparmia colpi di scena per mescolare la Spagna di ieri con quella di oggi, oligarchi russi che vendono vodka compresi. Ma alla fine il gioco rischia di stancare. Probabilme­nte Gillian non ha voluto rinunciare a niente, visto la fatica e il tempo che questo film gli era costato, e nella festa finale dà fondo a tutto il suo repertorio di invenzioni barocche e fiammeggia­nti, rischiando però di scivolare nell’autocompia­cimento. Forse voleva accompagna­re lo spettatore a riflettere sui «labirinti fantastici» dove immaginazi­one e realtà si intreccian­o indissolub­ilmente (come è appunto nelle mente del personaggi­o di Cervantes) ma alla fine ci si perde anche lui. E lo spettatore insieme.

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Set Jonathan Pryce nel film di Terry Gilliam

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