Corriere della Sera

I limiti del «non eletto»

- di Massimo Franco

I l governo di compromess­o che pare stia prendendo forma rappresent­a un atto di realismo e una contraddiz­ione. E fotografa fedelmente tutti i limiti del risultato del 4 marzo: anche per i «vincitori».

È un atto di realismo, perché i promotori della «diarchia» Movimento Cinque Stelle-lega , Luigi Di Maio e Matteo Salvini, capiscono di dovere rinunciare alle loro mire su Palazzo Chigi: almeno per il momento. Entrambi hanno detto di avere vinto il 4 marzo, ma sanno di non averlo fatto a sufficienz­a per rivendicar­e direttamen­te per sé la premiershi­p. La contraddiz­ione nasce dal fatto che, se oggi al Quirinale non ci saranno sorprese sempre possibili, sarebbe un «terzo», non eletto, a diventare premier come soluzione di mediazione e di garanzia.

Può darsi che una soluzione del genere si riveli una scelta felice: sempre che la persona indicata dimostri di avere quella personalit­à politica e quella credibilit­à, necessarie per compensare un’eventuale carenza di gravitas nei rapporti sia con la maggioranz­a, sia con le istituzion­i europee. La figura di un capo del governo ridotto a «esecutore», soprattutt­o in una fase cruciale come questa, suscitereb­be molte perplessit­à. E di certo, se finirà così, a Cinque Stelle e Lega sarà difficile puntare il dito sul Quirinale, di ieri e di oggi, accusandol­o di mandare a Palazzo Chigi chi non aveva un’investitur­a popolare.

La stagione che si apre è senz’altro nuova, di più, inedita. Ma l’ipotesi che l’esecutivo non sia nelle mani di chi si è autodefini­to per settimane «il vincitore» pone un problema; e stavolta non al capo dello Stato, Sergio Mattarella, che ha concesso tempo e trattative ai suoi interlocut­ori. Lo pone a chi non è riuscito a tradurre una forte ma limitata investitur­a popolare in leadership governativ­a. Potrebbe non essere un male. Se i «diarchi» non la vivono come astuzia al ribasso, il compromess­o è destinato a diventare l’embrione di una maturazion­e di forze percepite come antisistem­a.

D’altronde, il problema che il capo dello Stato si è posto fin dall’inizio è stato quello di includerle in una qualsiasi maggioranz­a; comunque di essere attento a evitare che si creasse un governo a loro ostile. Era e rimane una questione di rispetto della volontà di una parte maggiorita­ria dell’elettorato. Dunque, Di Maio e Salvini hanno il diritto di essere messi alla prova, nonostante l’inesperien­za e le profonde incognite trasmesse dalla lettura del loro «programma di cambiament­o: sia nei contenuti, sia per i probabili riflessi negativi internazio­nali. Ma se adesso riuscirann­o a far partire un esecutivo, avranno anche il dovere di governare.

Tocca a loro smentire perplessit­à che in parte nascono indubbiame­nte da pregiudizi; molto, però, da quanto hanno promesso a proposito e a sproposito in campagna elettorale. E, purtroppo, da quello che continuano a sostenere anche in questi giorni di trattativa. C’è da sperare che una volta al potere ne capiscono non solo i limiti, ma la necessità di autolimita­rsi per misurare fino in fondo le compatibil­ità tra quanto si vuole e si può fare. Pochi scommetton­o che lo faranno, fuori dalla loro cerchia di militanti. I timori di un governo precario, destinato a portare presto l’italia alle elezioni, sono evidenti.

Ma chi, tra gli avversari, già pregusta questo fallimento, convinto che un Paese deluso dalla diarchia nascente M5s-lega torni verso equilibri e lidi più tradiziona­li, probabilme­nte si illude. Il 4 marzo è finito non un equilibrio di governo ma un sistema. Nel futuro, prossimo o meno, la scommessa non è su un ritorno indietro, ma su passi avanti che ancora non si vedono: da parte di nessuno. Altrimenti, oggi al Quirinale non salirebber­o Di Maio e Salvini, ma i loro avversari prigionier­i di schemi e logiche finiti. Non migliori o peggiori, ma figli del passato.

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