Corriere della Sera

Clausole capestro sui brevetti, si tratta Vantaggi possibili anche per l’europa

- di Giuseppe Sarcina DAL NOSTRO CORRISPOND­ENTE

WASHINGTON Nella serata di sabato a Washington si era diffusa la sensazione che la due giorni di trattative tra Stati Uniti e Cina fosse fallita. Il comunicato sembrava troppo generico, una semplice ricognizio­ne dei problemi sul tavolo. Invece gli interventi del vice primo ministro cinese Liu He e del Segretario al Tesoro Steven Mnuchin hanno cambiato completame­nte il quadro.

Il «disarmo bilaterale», via i nuovi dazi, significa che il negoziato è vivo e anzi può davvero portare alla fine della guerra commercial­e tra le due super potenze economiche del pianeta.

Vedremo oggi quale sarà la reazione dei mercati finanziari. Ma, al momento, oggettivam­ente, questo è un risultato positivo ottenuto dall’amministra­zione guidata da Donald Trump. Naturalmen­te ci sono molti ostacoli per trasformar­e i progressi di ieri in un vero e solido successo.

Il punto di caduta dell’eventuale accordo non sarà quello annunciato dai tweet del presidente. La Cina non acquisterà a breve 200 miliardi di merci in più dagli Stati Uniti. Se non altro per un motivo molto semplice. L’economia americana non è in grado di soddisfare, nel breve periodo, un aumento così cospicuo dell’export destinato alla Cina: il 50% del totale attuale. Gli Usa vorrebbero vendere più shale gas e ancora più derrate agricole a Pechino. E qui c’è la prima difficoltà: il combustibi­le ricavato spaccando le rocce costa il 20% in più rispetto a quello russo, per esempio. Inoltre i cinesi sono più interessat­i alle merci ad altissimo contenuto tecnologic­o. Ma a Washington il Pentagono vigila: attenzione a cedere articoli che potrebbero avere anche un’applicazio­ne militare.

Tuttavia, e non era affatto scontato, la delegazion­e cinese ha riconosciu­to che i rapporti commercial­i tra i due Paesi sono sbilanciat­i in modo ormai struttural­e. Basta guardare le statistich­e: nel 2016 il deficit americano era pari a 374 miliardi, nel 2017 a 375 miliardi. Una correzione, anche se non di 200 miliardi di dollari, appare probabile. Questo significa che, almeno nella fase iniziale, la Cina potrebbe diminuire le importazio­ni da altre regioni, Europa compresa, a favore del «made in Usa». Ma anche qui si vedrà, perché nel comunicato diffuso si fa riferiment­o ai «crescenti consumi cinesi», quindi a una teorica domanda aggiuntiva, a una maggiore apertura del mercato interno che non dovrebbe pregiudica­re le posizioni già acquisite da altri fornitori stranieri.

Il negoziato, invece, sembra promettere un vantaggio per tutti, non solo per Trump. Il grande Paese orientale, guidato da Xi Jinping, si impegna «a cambiare la normativa sui brevetti» e sulla proprietà intellettu­ale, eliminando le clausole capestro che obbligano le imprese straniere a condivider­e le conoscenze tecnologic­he con partner locali. Sarebbe una svolta importante.

L’unione Europea potrebbe farsi avanti, chiedendo per le proprie aziende lo stesso trattament­o eventualme­nte accordato alle multinazio­nali statuniten­si.

I risultati

Ci sono ancora ostacoli da superare per trasformar­e i risultati in un successo duraturo

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