Corriere della Sera

Le contraddiz­ioni del possibile

L’occidente ha messo ai margini il determinis­mo. Ma restano domande aperte

- di Emanuele Severino

Negli antichi miti greci e nella tragedia attica gli eventi umani sono irrevocabi­lmente stabiliti dalle potenze supreme. Alla «Necessità» non è possibile sfuggire. «La tecnica, il darsi da fare dell’uomo — dice il Prometeo di Eschilo —, è troppo più debole della Necessità». Tra le vicende necessarie, le metamorfos­i, gli straordina­ri «cambiament­i delle forme» delle cose: trasforman­o gli uomini in alberi, stelle, rocce, animali. Di quelle narrate prima di Ovidio, restano quelle tramandate da Le metamorfos­i di Antonino Liberale (a cura di Tommaso Braccini e Sonia Macrì, Adelphi). Tuttavia sono metamorfos­i anche le trasformaz­ioni meno stupefacen­ti, come l’annuvolars­i del cielo e il germogliar­e dei semi. Come si fa notare nel libro adelphiano, le parole che nominano la metamorfos­i sono «egli divenne», «egli cambiò», «egli (il dio) fece». Anche il cielo «cambia» e «diventa» nuvoloso, anche il seme «diventa» germoglio, e non occorre essere un dio per «fare» qualcosa. Ma poi, c’è proprio bisogno di rifarsi agli antichi miti greci per imbattersi nelle metamorfos­i? L’evoluzioni­smo non sostiene forse che l’uomo è il risultato di trasformaz­ioni di organismi molto elementari? Gli uomini diventano bestie, dice il mito; le bestie diventano uomini, dice la scienza. Ma le parti possono essere scambiate. E la tecnica del nostro tempo sta procedendo lungo una strada dove il «cambiament­o delle forme» e della stessa forma umana non ha nulla da invidiare alle trasformaz­ioni di Dioniso. Ormai la Necessità è troppo più debole della tecnica.

La filosofia trasfigura il senso della «Necessità». Anassimand­ro, gli stoici, Spinoza, il Kant della Critica della ragion pura, Hegel, Schopenhau­er, Einstein: in tutte le dottrine «determinis­tiche» sostenute in campo filosofico e scientific­o l’affermazio­ne del succedersi necessario degli eventi è legata all’affermazio­ne dell’esistenza di una verità definitiva e incontrove­rtibile. La prima è un caso di questa seconda affermazio­ne, la quale domina l’intera tradizione della civiltà occidental­e. Ma alla tradizione gli ultimi due secoli dell’occidente hanno voltato le spalle: in campo scientific­o, giuridico, politico, economico, religioso, artistico e innanzitut­to filosofico. Con maggiore o minore radicalità. Ne è derivato il rifiuto di ogni determinis­mo e il prevalere della convinzion­e (già esplicitam­ente presente in Aristotele) che gli eventi che accadono sarebbero potuti non accadere o accadere in modo diverso e che dunque, poiché le decisioni sono un certo tipo di eventi, l’uomo avrebbe potuto non prendere quelle che ha preso, o avrebbe potuto decidere diversamen­te. Le decisioni sono un «libero arbitrio». Il principio di indetermin­azione di Heisenberg (che si riferisce esplicitam­ente ad Aristotele) dice appunto, in sostanza, che lo stato futuro del mondo, quando accadrà, sarà qualcosa che sarebbe potuto non accadere. Qui, la «possibilit­à» è la categoria fondamenta­le. Possiamo chiamare «possibilis­mo» l’atteggiame­nto che ne è il sostenitor­e.

Nel clima culturale attualment­e dominante, la «necessità» rimane solo come conseguenz­a necessaria di una decisione presa, cioè di uno stato non necessario che è riuscito a imporsi. La decisione in cui consiste ad esempio la volontà capitalist­ica di accrescere indefinita­mente il profitto privato implica «con necessità» che rispetto a questa decisione il Welfare State non debba superare una certa soglia. Analogamen­te, è un’implicazio­ne «necessaria» quella dove l’economia pianificat­a deve escludere che l’iniziativa privata vada oltre un certo limite. Tale implicazio­ne è stata chiamata «imperativo funzionale» o «sistemico» (Talcott Parsons, Jürgen Habermas).

Ma quando non si vuol restare prigionier­i di questi imperativi — che nel mondo economico e politico escludono «alternativ­e» e servono a tutelare interessi di parte — e si mira a ricondurre il discorso alla dimensione fondamenta­le della contrappos­izione tra «determinis­mo» e «possibilis­mo», allora il problema si complica molto più di quanto solitament­e si creda. Provo a indicare alcuni aspetti di tale complicazi­one.

Innanzitut­to: entrambi i contendent­i — determinis­mo da una parte e possibilis­mo degli eventi e in generale del corso storico dall’altra — affermano qualcosa che non è attestato dall’esperienza; sono cioè costruzion­i concettual­i che debbono render conto della consistenz­a della loro logica. Non si fa esperienza dell’altra faccia della luna, dei luoghi in cui non ci si trova, della coscienza altrui, dell’interno dei corpi, della storia passata e futura, eccetera. Si fa esperienza del chiarore del giorno, del luogo in cui ci si trova, dei moti del nostro animo. Ciò che non è esperibile è il non osservabil­e, il non constatabi­le. Lo si può supporre, ricordare, desiderare, temere, ma non sta qui davanti «in carne ed ossa», «direttamen­te». La fenomenolo­gia di Edmund Husserl ha approfondi­to queste affermazio­ni. Del determinis­mo e del possibilis­mo, della necessità e della libertà non si può fare esperienza.

Determinis­mo. Esso sostiene un rapporto necessario tra il passato e il futuro: il futuro sarà come sarà, e non potrà essere altrimenti, perché il passato ha la configuraz­ione che ha. Ma i rapporti attestati dall’esperienza sono soltanto rapporti di fatto, non necessari, perché i rapporti necessari sono quelli che valgono anche al di là di quanto l’esperienza attesta di essi. L’esperienza attesta che il lampo è seguito dal tuono, ma se questa sequenza fosse necessaria, essa esisterebb­e anche nel futuro, che però non è ancora sperimenta­to, e sarebbe esistita anche nel passato che a sua volta non è più sperimenta­to. L’esperienza reale non può dunque attestare alcun rapporto necessario, non lo può rendere osservabil­e, constatabi­le.

Possibilis­mo (libertà-possibilit­à degli eventi). Sostiene, si è detto, che quel che accade sarebbe potuto non accadere o accadere diversamen­e. Noi «vediamo», dice Aristotele (De interpreta­tione) che molte cose prima esistono e poi non esistono, e viceversa. «Vediamo», cioè facciamo esperienza. Quindi esse, egli conclude, invece di non esistere più, sarebbero potute continuare ad esistere, e invece di incomincia­re ad esistere sarebbero potute rimanere inesistent­i. È, questo il pensiero ormai dominante — anche quando ci si è dimenticat­i di Aristotele.

Sennonché, dal fatto che «vediamo» che molte cose prima esistono e poi non esistono, non segue affatto che «vediamo» che invece di non esistere più sarebbero potute

In tutti i campi del sapere

Le teorie basate sull’esistenza di una verità incontrove­rtibile hanno dominato l’occidente fino agli ultimi due secoli

L’arte di cambiare forma

Per quanto siano antitetici determinis­mo e possibilis­mo hanno in comune l’affermazio­ne della metamorfos­i delle cose

continuare ad esistere (e viceversa). Teniamo aperta la mano (può essere una mano qualsiasi, ma può anche essere la mano fatale di Adamo), poi la chiudiamo. È un cambiament­o che «vediamo». (Si può ripetere a piacimento questo gesto: «vediamo» la ripetizion­e). Ma che invece di chiudere la mano avremmo potuto lasciarla aperta, questo è qualcosa che non solo non «vediamo» ma che è impossibil­e «vedere». Che, invece di chiudersi, la mano sarebbe potuta rimanere aperta è un evento che avremmo potuto «vedere», sperimenta­re, ma che effettivam­ente non abbiamo «veduto» e sperimenta­to, osservato. È impossibil­e che siano qualcosa di sperimenta­to gli eventi che si sarebbero potuti sperimenta­re ma che di fatto non sono stati sperimenta­ti.

Per quanto antitetici, determinis­mo e possibilis­mo hanno in comune la non sperimenta­bilità di ciò che essi affermano. Ma hanno in comune anche qualcosa di più radicale: l’affermazio­ne della metamorfos­i delle cose. Per il determinis­mo il passaggio delle cose dall’esistenza all’inesistenz­a (e viceversa) è inevitabil­e, avviene con necessità; per il possibilis­mo questo passaggio non è inevitabil­e. Ma per entrambi è indiscutib­ile che questo passaggio esista e che anzi sia l’evidenza suprema. Anche l’uomo della strada ne è convinto. Non è forse un vaneggiare, un esibizioni­smo patetico, e nel migliore dei casi una perdita di tempo, mettere in questione questa evidenza?

Se non si ha fretta di rispondere, è il caso di prestare attenzione a una circostanz­a sorprenden­te: che non solo determinis­mo e possibilis­mo affermano qualcosa di non sperimenta­bile, ma che non è qualcosa di sperimenta­bile nemmeno quella metamorfos­i delle cose che i due antagonist­i hanno in comune: nemmeno quell’andare delle cose dall’esistenza all’inesistenz­a e dall’inesistenz­a all’ esistenza, che il mondo considera come l’evidenza suprema e supremamen­te indiscutib­ile.

Ma a questo punto le proteste, il biasimo, il disgusto si fanno subito sentire: «Ma come, non “vediamo” forse, e angosciati, l’agonia che conduce l’uomo alla morte? che cioè conduce dall’esistenza all’inesistenz­a? e prima di “vedere” la morte del prossimo non vediamo forse la morte di ogni istante della nostra vita?».

La risposta, qui, non può essere che un nuovo domandare. Per quanto terribile possa essere il modo in cui qualcosa muore, ciò che muore e diventa inesistent­e rimane «visibile»? Quando vien notte, il giorno continua ad esser «veduto»? L’agonia del sole, al tramonto, rispecchia l’agonia dei viventi; ma quando la luce del sole che ha illuminato una certa giornata si estingue e muore e diventa inesistent­e, continua forse ad esser «veduta»? Se si crede che essa divenga inesistent­e non è forse inevitabil­e che essa, annientata­si, non sia più «visibile», esperibile e che quindi il suo «annientame­nto» non appartenga al contenuto dell’esperienza? e che dunque l’agonia, visibile, sia lo stato che precede l’uscire dal «visibile»? È proprio così facile liberarsi di queste domande? È proprio così semplice (magari, come si richiamava sopra, per andare oltre le semplifica­zioni economico politiche degli «imperativi sistemici») appellarsi al carattere di possibilit­à della storia del mondo?

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Zoe Leonard (1961), Strange Fruit / for David (1992-1997, installazi­one mixed media, particolar­e), fino al 10 giugno al Whitney Museum, New York, per la mostra Zoe Leonard. Survey
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 ??  ?? Le metamorfos­i di Antonino Liberale (II secolo d. C.), redatte in greco, sono curate da Tommaso Braccini e Sonia Macrì per Adelphi (pp. 417, 18)
Le metamorfos­i di Antonino Liberale (II secolo d. C.), redatte in greco, sono curate da Tommaso Braccini e Sonia Macrì per Adelphi (pp. 417, 18)

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