Corriere della Sera

Lo scrittore che ha scavato nel buio dei nostri cuori

Ossessiona­to dalla caducità della vita umana e dalle sue contraddiz­ioni, per raccontare le sue storie partiva sempre dall’io. E dalla cucina di casa

- di Alessandro Piperno

Philip Roth — insieme a un paio di scrittori morti secoli fa — è l’individuo che non conosco con cui ho passato più tempo in tutta la mia vita. Lo frequento da quando arrampican­domi sulla libreria dei miei genitori in salotto, su su fino all’ultimo scaffale zeppo di romanzi proibiti, misi le mani sul Lamento di Portnoy. Allora scoprii che tre anni prima della mia nascita qualcuno aveva saputo parlare del cuore nero dell’adolescenz­a in un modo che nessuno (neanche il compagno di classe più intraprend­ente e sboccato) avrebbe potuto eguagliare.

Da allora ho recuperato dapprima i romanzi dei tardi anni Settanta e dei primi anni Ottanta mal editati (almeno in Italia) e così sfortunati, per poi lasciarmi andare sempre più sbigottito alla gigantesca, stupefacen­te resurrezio­ne che, per dirla con Coetzee, ha sfiorato «vette shakespear­iane» tra il ’95 e il ’97, quando Roth diede alle stampe Il teatro di Sabbath e Pastorale americana, ovvero quanto di più toccante e ambizioso uno scrittore abbia prodotto nell’ultimo mezzo secolo.

Ieri mattina mentre si diffondeva la notizia della sua morte — preso dal sentimenta­lismo corrivo e melenso che ogni tanto ci illanguidi­sce i cuori e di cui subito ci vergogniam­o — ho mandato un messaggio a un amico con cui da lustri condito vido l’idolatria rothiana: «Gli avevo a stento perdonato la decisione di non scrivere più, ma questo?». La risposta, non meno retorica in fondo, mi è sembrata un magnifico epitaffio: «Si finisce per scambiare l’immortalit­à della carta con l’immortalit­à della carne».

La beffa è che se c’è un romanziere che non ha scommesso sull’eternità, quello è Philip Roth. Anzi, prevedeva che nel corso di un quarto di secolo i lettori di narrativa si sarebbero assottigli­ati al punto da ridursi al novero di cultori della poesia latina. Mi auguro che avesse torto — se non altro per la salute del mio conto in banca — ma riconosco in tale affermazio­ne tut- il realismo rothiano, inteso come buon senso della realtà.

Roth appartiene ai rari giganti della letteratur­a — da Montaigne a Joyce — che non se la sono mai raccontata. Che non hanno mai scambiato la propria dedizione all’arte per una cosa seria e indispensa­bile per il resto dell’umanità. Che hanno lavorato indefessam­ente, senza mai illudersi che ciò avrebbe potuto cambiare qualcosa. E lo hanno fatto perché non poteva essere altrimenti. «Lavoro tutto il giorno, mattina e pomeriggio, sette giorni su sette. Se mi ci metto per due o tre anni, alla fine ho un libro». Semplice, no? Sì, se hai la carica sexy di Philip Roth, il suo carisma morale, la sua sfrontatez­za artistica. Del resto, è difficile spiegare a chi non lo capisce quanto persuasivi, vitali, euforizzan­ti siano gli inconfondi­bili giri di frase rothiani, l’eloquenza, la sintassi teatrale, gli avverbi ossessivi e tonitruant­i. E i punti interrogat­ivi? Chi altro ha saputo dare un simile lustro alle forme interlocut­orie?

Il fatto è che Roth è attratto dalle contraddiz­ioni, e da tutto ciò che è storto e non funziona, è animato dal sospetto che nella vita i conti tornino raramente. In tal senso è un autentico moralista. In uno dei passi più celebri di Pastorale americana scrive: «Rimane il fatto che, in ogni mo-

do, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi; sbagliando».

Era dai tempi di Port Royal che uno scrittore non parlava in modo tanto franco e ossessivo dell’ineluttabi­lità della morte e della caducità della vita umana. E ciononosta­nte la narrativa di Roth, con tutte le sue divagazion­i cimiterial­i, i suoi affreschi plumbei, le patologie invalidant­i, è gioiosa, come sanno essere gioiose solo le cose belle e le cose vere. Lo so, forse, date le circostanz­e, sarebbe più saggio e didascalic­o soffermars­i sull’america, sul sesso, sulla misoginia (che d’altronde io non ho mai riscontrat­o), sull’onanismo, sull’assimilazi­one ebraica, sui conflitti etnici, sull’epica e sull’ambizione, insomma sui temi à la page che impreziosi­scono la narrativa rothiana; ma si dà il caso che, almeno per me, il cuore dell’opera di Roth sia racchiuso nel titolo di uno dei suoi libri meno belli: My Life as a Man, la mia vita di uomo. E Dio ha voluto che la sua vita combaciass­e con la letteratur­a, in un matrimonio talmente difficile che a un certo punto Roth ha chiesto il divorzio, appendendo la penna al chiodo. «Anche l’arte è vita» si accalorava con un’intervista­trice di un noto settimanal­e francese. «Capisce? Isolamento è vita, meditazion­e è vita, fingere è vita, fare congetture è vita, contemplar­e è vita, la lingua è vita».

Ciò che molti detrattori hanno confuso per egotismo altro non è che la constatazi­one che la sola maniera per scrivere qualcosa di decente è partire da sé, tornare ossessivam­ente a se stessi, a costo di essere equivocati o vilipesi. Gli alter ego rothiani — Alex Portnoy, Nathan Zuckerman, David Kepesh e Philip Roth stesso con tanto di sosia annessi — non svolgono la stessa funzione degli pseudonimi in Stendhal o degli eteronimi di Pessoa. Roth non li inventa per nasconders­i o per reinventar­si. Lo fa per essere ancora più schietto e spietato. Nell’intervista alla «Paris Review» del 1984 Hermione Lee gli chiede: «Quando scrive in testa ha un lettore in particolar­e?». La risposta è tanto spiritosa quanto emblematic­a: «No. A volte mi capita di avere in testa un lettore anti-roth. E penso, come odierà questa cosa. Il che può rivelarsi proprio la spinta di cui ho bisogno». Non è facile resistere alla tentazione di compiacere il lettore, ma provocarlo deliberata­mente è un esercizio ancor più complicato. E tuttavia riuscire a metterlo con le spalle al muro, alle corde, di fronte al suo perbenismo e al suo puritanesi­mo, può dare gioie impagabili. Ecco un’altra lezione da tenersi stretti.

C’è una cosa piccola di Philip Roth che mi ha sempre sorpreso e intenerito. Se date un’occhiata ai suoi ultimi libri in hardcover — le edizioni americane naturalmen­te — troverete la sua biografia zeppa di onorificen­ze che neanche un ambasciato­re o un generale pluridecor­ato. Premi su premi, e tra i più internazio­nalmente prestigios­i. Ripeto: la cosa mi ha sempre sorpreso e intenerito. Mi dicevo: che te ne fai di questa roba? Sei Philip Roth. Sei tu che dai lustro a quelle bigie istituzion­i, non viceversa. Del resto, ho sentito dire che il Nobel mancato fosse un serio problema per lui. Anche questo mi sembra incredibil­e. Il Nobel? A che ti serve il Nobel? Non ti basta esserti inventato Mickey Sabbath, Drenka Balich e il loro funambolic­o amore adulterino?

Eppure, pensandoci bene, anche questo esprime al meglio la contraddit­torietà di Philip Roth. Immagino che quei riconoscim­enti avrebbero riempito di orgoglio i suoi genitori, soprattutt­o il padre per cui Philip aveva un’autentica venerazion­e. Roth passa per il grande distruttor­e delle famiglie, l’accusatore indefesso dell’istituzion­e patriarcal­e. È lui ad aver detto: «Quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è finita». È così che stanno davvero le cose? C’è uno scrittore che, nel suo sostanzial­e ateismo, materialis­mo, nichilismo, abbia coltivato un culto per gli avi, per i penati, in poche parole per la genealogia familiare più di Philip Roth? A me pare proprio di no.

A un tratto, ne La controvita, durante un litigio tra i fratelli Zuckerman, Henry chiede con sarcasmo a Nathan: «Dimmi una cosa, è mai possibile, almeno fuori dai tuoi libri, che tu abbia un quadro di riferiment­o un po’ più vasto del tavolo della nostra cucina di Newark?»; Nathan gli risponde: «Il caso vuole che il tavolo di quella cucina di Newark sia la fonte di tutti i miei ricordi ebraici».

Ora che la sua vita è finita, che la sua opera è chiusa per sempre, è facile notare come Roth abbia impiegato metà dei suoi libri a fuggire da quella cucina, e l’altra metà provando a rientrarci. È così che funziona, no? Da ragazzo non pensi che a scappare di casa, da adulto metti in atto i propositi libertari, da vecchio faresti di tutto per tornare all’ovile. Troppo tardi: ogni cosa che ti faceva palpitare e infuriare è venuta meno e ciò che resta parla una lingua aliena.

Il suo matrimonio con la letteratur­a è stato così difficile che a un certo punto ha chiesto il divorzio

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Philip Roth ritratto a New York, la città in cui è scomparso
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L’addioPhili­p Roth ritratto a New York, la città in cui è scomparso la sera del 22 maggio (in Italia ieri mattina) per un’insufficie­nza cardiaca. Lo scrittore era nato il 19 marzo 1933 a Newark, nello Stato del New Jersey, in una famiglia di religione ebraica (foto Reuters / Eric Thayer)

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