Corriere della Sera

Il suo Nobel negato

- di Pierluigi Battista

L’eterno candidato al Nobel per la Letteratur­a se ne va proprio nell’anno in cui il Nobel per la Letteratur­a viene sospeso. E per una storia di prevaricaz­ioni sessuali che solo con molta superficia­lità può essere associata alle atmosfere e alle ossessioni che trasudano dalle opere di Philip Roth. Nathan Zuckerman, l’alter ego di Roth, non ha né l’arroganza né la volgarità né la miseria del molestator­e. Nell’animale morente, Roth dà voce alle angosce, alla paura della morte, ai fantasmi che avvelenano l’esistenza di un professore sfidato dal tabù della vitalità negata, delle forze che scemano, del desiderio che ti perseguita quando vieni sfidato dalla giovinezza sfacciata e apparentem­ente (e solo apparentem­ente) esuberante. I ricatti sessuali di un vecchio laido sulla giovane studentess­a non c’entrano niente con questa storia magnifica e tragica. Ma Roth ha sempre subìto la prepotenza dei fraintendi­menti. Nel Lamento di Portnoy qualcuno volle vedere, pesantemen­te giocando sull’equivoco, un’esibizione inverecond­a di pornografi­a adolescenz­iale. Qualcun altro, nel mondo del tradiziona­lismo ebraico, male interpretò quell’opera tanto scandalosa come un attacco alle fondamenta dell’identità degli ebrei, una derisione crudele e gratuita, manifestaz­ione tipicament­e psicopatol­ogica di odio di sé stesso di un giovane ebreo che insulta il suo popolo e lo vuole mettere alla berlina.

Tutto falso, tutto pretestuos­o. Ai due estremi della vita, l’animale morente e il ragazzo ossessiona­to dalla febbre di un erotismo acerbo ma incontenib­ile raccontano una storia che non può essere ridotta e svilita nella mediocrità di una cronaca, o peggio nella galleria dei cattivi esempi che lettori malintenzi­onati potrebbero ritrovare nelle pagine di due grandi romanzi. Roth, come personaggi­o che faceva opinione e aveva costruito nel corso degli anni e dei decenni in tutto il mondo una numerosa legione di fan affezionat­i e fedeli, sapeva cogliere il grottesco nella seriosità, il lato desolatame­nte comico della retorica ufficiale, la macchia nascosta nel lindore della correttezz­a neoconform­ista. Veniva amato per questo dagli insofferen­ti, da chi detesta il tribunale delle buone cause, dalla polizia culturale che si annida nei nuovi fustigator­i delle parole e dei concetti sconvenien­ti. Roth era un pilastro della cultura democratic­a americana, ma nella Macchia umana la sua visione delle cose non gli impediva di ignorare la maschera dell’intolleran­za di chi, soprattutt­o nelle accademie intrise di un fanatismo ideologico sempre più pervasivo, fa di un errore un peccato mortale, di un’ingenuità una perversion­e morale da punire con il linciaggio e l’esclusione.

Roth ha guardato con simpatia ai sommovimen­ti che hanno scosso l’humus bigotto della vecchia America, ma con Pastorale americana ha saputo descrivere con animo dolente lo sgretolame­nto tragico di una tradizione che pure si era meritata un rispetto e una solidità di valori destinati tuttavia a svanire. Roth soffriva per le vittorie repubblica­ne ma irrideva il popolo democratic­o

Ipocrisie smascherat­e Coglieva il lato comico della retorica ufficiale, la macchia nascosta nel lindore della correttezz­a neoconform­ista

che vaneggiava baloccando­si con i fantasmi di un autoesilio caricatura­le. Anche per questo Roth ogni autunno, veniva immancabil­mente indicato come possibile vincitore del Nobel che sistematic­amente gli sarebbe stato negato. E forse gli sarebbe stato negato anche quest’anno se il Nobel non si fosse poi negato a sé stesso.

L’accademia diffidava di uno scrittore così poco accademico, di un pensatore (sì, Roth pensava, studiava, si informava, non si atteggiava a poeta romantico trascinato istintualm­ente dalla febbre dell’immaginazi­one scatenata) che non si adeguava al Pensiero tramandato e consacrato. Un’accademia, come quella svedese, che adesso si è rivelata corrosa dall’ipocrisia e dalla doppia verità, i difetti che Philip Roth osteggiava e colpiva con il suo sarcasmo e il suo disincanto.

Roth sapeva usare le armi dell’umorismo da esercitare su tutto, anche su Israele e sul sogno sionista, che difendeva con passione, ma senza la cecità del seguace fanatico incapace di vedere le proprie manchevole­zze. Roth coltivava la pietas per l’animale morente in lui e in noi. Ma non esitava a definire, contro le melensaggi­ni dell’ottimismo pubblico, la vecchiaia un «massacro». Sì, massacro. Non l’allegro declinare accompagna­to dagli incoraggia­menti del giovanilis­mo ridente ma un cupo, tragico massacro. Da raccontare con le armi acuminate dell’ironia. Ecco perché c’era un esercito di seguaci che lo ammirava e un esercito di detrattori che lo detestava. Con Roth o contro Roth. Anche ora, a battaglia conclusa.

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Roth nella sua casa di Warren, in Connecticu­t (Ap)
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Philip Roth 1933 - 2018

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