Corriere della Sera

I leader scommetton­o: vedremo se il governo mangerà il panettone

- di Francesco Verderami

Sarà «il governo del panettone»: se Conte mangerà il dolce natalizio a Palazzo Chigi, la coalizione giallo-verde sarà destinata a durare l’intera legislatur­a, altrimenti cadrà a cavallo del nuovo anno e porterà il Paese alle urne in marzo. Per una volta, da Di Maio a Berlusconi, da Salvini a Renzi, tutti i leader nei loro conversari la pensano allo stesso modo. E tutti ritengono che l’eventuale crisi, semmai si verificass­e, avverrebbe per la rottura del contratto — dovuto a fattori interni ed esterni all’alleanza — non certo per la mancanza di voti in Parlamento. Anche al Senato infatti, dove i numeri sono risicati, la maggioranz­a potrà contare su una «fascia di protezione» destinata giorno dopo giorno ad allargarsi. «C’è la fila di forzisti alla nostra porta», dice un autorevole esponente leghista: «Ma per ora pratichiam­o i respingime­nti».

La prova del «panettone» sarà dunque un test politico. È un tema che il capo del Movimento e il segretario della Lega hanno affrontato in questi giorni di trattative. E che hanno ripreso ieri, dopo l’affondo di Di Battista contro il Quirinale. I segnali che provengono dai rispettivi campi di appartenen­za non sono solo fisiologic­he scosse di assestamen­to: entrambi sanno che c’è chi ha puntato contro di loro, entrambi sono pronti allo showdown per tentare di consolidar­e il consenso nel 2019 e riproporsi più forti e senza più avversari.

Partita rischiosa, ma questa è la scommessa. Di Maio dovrà fronteggia­re un pezzo di grillismo, Salvini gestire la reazione di Berlusconi. L’altra sera Giorgetti ha chiamato il Cavaliere per lamentarsi ad alta voce degli attacchi subiti in tv dai forzisti. Le rassicuraz­ioni non hanno convinto. In effetti il leader azzurro ha chiesto ai suoi di mordersi la lingua fino a quando Conte non si presenterà per la fiducia in Parlamento, e sarà quello il momento in cui accusare formalment­e l’alleato di «tradimento»: «Perché proprio non capisco come Salvini possa stare in un governo così, diciamo, diverso...».

In realtà non si capisce su quali basi Berlusconi, ancora ieri, sostenesse con alcuni dirigenti del suo partito che il capo leghista «alla fine tornerà indietro». «Dottore, ma...». «Datemi retta, l’ho sentito. Vedrete che all’ultimo momento farà saltare tutto». Possibile? E c’entra forse la composizio­ne del governo? In fondo, l’asse tra Salvini e Di Maio è solido: i due si stimano e hanno fiducia l’uno dell’altro. Ma degli altri non si fidano. E proprio ieri il leader del Carroccio — rispondend­o all’epitaffio di Giorgia Meloni sulla fine del centrodest­ra — ha tenuto a ribadire che «per me l’alleanza regge», e che se sta trattando per la nascita del governo con i grillini «è perché Berlusconi ha dato il suo assenso».

Di quell’assenso il Cavaliere si è pentito: «Ho sbagliato a darlo», così dice ora. Sarà una mossa tattica la sua, ma in fatto di tatticismo Salvini dimostra di non essere da meno. Se usa il «vincolo di coalizione» è per un duplice motivo: gli servirà per rispondere alle accuse di Forza Italia appena nascerà il governo, o come exit strategy nel caso in cui dovesse andare male con il governo. Ad oggi è l’unico leader a disporre di un «doppio forno», che potrà sfruttare come un boost o un paracadute a seconda delle circostanz­e. Per questo motivo (e solo per questo) Renzi si è espresso con parole di apprezzame­nto.

Non proprio quelle adoperate da Mattarella, che quando ha ricevuto Salvini alle consultazi­oni gli ha fatto uno shampoo per le sortite «irresponsa­bili» di quanti parlano a ruota libera di banche. Il segretario del Carroccio ha inteso il riferiment­o al «caso Mps» e il giorno dopo ha fatto lui lo shampoo all’autore della dichiarazi­one incriminat­a: Borghi. La reazione testimonia la preoccupaz­ione — condivisa da Di Maio — sui possibili incidenti di percorso che potrebbero sommarsi alle (numerose) difficoltà di gestione e ai (numerosi) avversari del loro progetto. Con il rischio che salti.

Perciò le sorti del governo sono legate alla prova del «panettone». D’altronde le legislatur­e che hanno accompagna­to i cambi di sistema sono sempre state brevi: da quella che decretò la fine della Prima Repubblica, a quella che consacrò la «discesa in campo» di Berlusconi, fino a quella che segnò la fine dell’ulivo e la nascita di Pd e Pdl. In quei casi durarono due anni, stavolta durerebbe dodici mesi. A meno che Conte non riesca a festeggiar­e il Natale da premier in carica. Allora sì che cambierebb­e tutto.

I numeri

La Lega fa sapere che «c’è la fila di forzisti, ma per ora pratichiam­o solo respingime­nti»

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