Corriere della Sera

Il figlio del caposcorta di Falcone «Le vittime siamo noi, non papà»

A 26 anni dalla strage di Capaci. Il ricordo delle forze dell’ordine uccise dalle mafie

- dal nostro inviato Giovanni Bianconi

PALERMO Si chiama Giovanni come Giovanni Falcone, e Montinaro come Antonio Montinaro, il poliziotto caposcorta del giudice morto con lui a Capaci, 26 anni fa, insieme agli altri due poliziotti, Vito Schifani e Rocco Dicillo, e a Francesca Morvillo, la moglie del magistrato. Il 23 maggio 1992 Giovanni Montinaro non aveva ancora compiuto due

L’orgoglio

Giovanni Montinaro: «Fiero, giro a testa alta, i figli dei criminali non possono farlo»

anni, oggi ne ha quasi 28 e partecipa alle celebrazio­ni per l’anniversar­io della strage con l’orgoglio di portare quel nome due volte evocativo: «Sono fiero delle scelte fatte da mio padre: di avermi chiamato come il giudice quando era ancora vivo e di essergli rimasto accanto fino all’ultimo giorno, ben sapendo quello che rischiava».

La principale mancanza, racconta Giovanni Montinaro, «non è stata l’assenza materiale di un papà, ma vivere una vita che non doveva essere la mia. Io avrei preferito essere un ragazzino normale, magari figlio di un poliziotto e accompagna­rlo alle commemoraz­ioni di un collega morto, e invece no, devo essere qui in giacca e cravatta a ricevere l’omaggio delle autorità. Che mi fa piacere, ovviamente, ma la mia esistenza, pur piena di soddisfazi­oni e di orgoglio, è ancora oggi segnata dalla bomba che, come dice mia madre, ci è scoppiata in casa. Sono cresciuto con il dolore e l’amore della mamma, nel segno dell’insegnamen­to di un padre di cui non ho ricordi diretti ma che mi ha tramandato tante cose, a cominciare dal rispetto e dal senso del dovere».

Per il figlio del caposcorta, «le vere vittime siamo noi, non papà. Lui è un caduto di una guerra che alla fine abbiamo vinto, e anche di questo dobbiamo essere orgogliosi. I figli dei mafiosi, pentiti o meno, non possono dire altrettant­o; credo che anche loro avrebbero preferito avere un padre zappatore che guadagnava denaro onestament­e, e la differenza tra me e loro è che io posso camminare a testa alta e pronunciar­e ad alta voce il mio nome, loro no».

Il ventiseies­imo anniversar­io della bomba scoppiata a Capaci, in casa Montinaro e in tante altre famiglie è dedicato proprio ai caduti meno noti rispetto agli obiettivi degli assassini mafiosi, spesso accomunati sotto la categoria anonima delle «scorte». I loro nomi (in via D’amelio, 57 giorni dopo Capaci, morirono i poliziotti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Walter Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina) vengono scanditi nell’aula-bunker dell’ucciardone insieme a quelli dei poliziotti rimasti vivi per caso, o perché nei giorni delle stragi non erano di turno. E a tanti altri eroi nascosti della battaglia antimafia, che hanno affiancato i magistrati nel loro lavoro. Oltre agli agenti evocati dal capo della polizia Franco Gabrielli, ci sono gli investigat­ori della Guardia di finanza ricordati dal comandante Giorgio Toschi, che all’inizio degli anni Ottanta collaborar­ono con il pool nelle indagini bancarie e scoperchia­rono i traffici di Cosa nostra con l’estero: guadagni frutto del traffico di droga che resero più forte e sanguinari­a Cosa nostra, venuti alla luce grazie ad accertamen­ti complicati­ssimi che oggi si fanno al computer, magari con l’aiuto di qualche algoritmo, mentre all’epoca erano affidati alla pazienza e dedizione di maresciall­i armati di carta e penna.

E il comandante generale dell’arma Giovanni Nistri rammenta l’esempio dei carabinier­i Mario D’aleo, Giuseppe Bommarito e Pietro Morici, assassinat­i 35 anni fa perché indagavano sulla famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato e sul giovane boss Giovanni Brusca, il killer che premette il radiocoman­do a Capaci.

Proprio ieri è andato in pensione Vincenzo Mineo, il funzionari­o del ministero della Giustizia «custode» dell’aula dell’ucciardone, costruita per consentire la celebrazio­ne del maxi-processo a Palermo e divenuta una sorta di simbolico santuario della lotta alla mafia. «Ricordo la costruzion­e a tempo di record e la preoccupaz­ione del giorno in cui mancava ancora il tetto e tutto si allagò per la pioggia», racconta con un sorriso Mineo, stringendo la mano del ministro della Giustizia Andrea Orlando, forse alla sua ultima uscita pubblica da Guardasigi­lli. «Oggi si parla di sicurezza legandola sempre più all’immigrazio­ne e alla microcrimi­nalità anziché alla mafia — chiosa Orlando — e questo è un pericolo».

Il tributo

Nell’aula bunker dell’ucciardone i nomi degli eroi meno noti dell’antimafia

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(foto Ansa) Il simbolo L’arrivo in Sicilia della «Nave della Legalità» con a bordo mille giovani. Era partita martedì dal porto di Civitavecc­hia
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Uccisi Dall’alto: Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, gli agenti Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani
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