Conrad, i libri, #metoo Le ultime telefonate con un grande amico
Stimava il movimento anti-molestie ma ne vedeva i pericoli
La suoneria di Facetime. Lo schermo dell’ipad che s’illumina. Philip Roth che appare seduto sulla solita poltrona nera nel suo appartamento di New York. Ha il telefonino sulle ginocchia, una camicia azzurra, un golf a V scuro, e sorride beffardo.
«Ti ricordi quando mi hai molestato dieci anni fa?».
«Prego?».
«Ti ricordi?», insiste. «Quella volta che mi hai molestato?». È spavaldo, sogghigna, si sta divertendo.
«Come potrei aver dimenticato?», rispondo scoppiando a ridere.
«Bene! Allora sappi che non sono più riuscito a dormire da allora!».
Durante una delle sue ultime telefonate, mentre in America cadevano le teste dei molestatori — tutte, tranne quella del Molestatore in Capo — avevamo parlato di #metoo, trovandoci sulla stessa linea di pensiero: un movimento straordinario, una rivoluzione necessaria e capace di aprire una nuova era, ma anche uno strumento potenzialmente letale per la sopravvivenza di quella stessa rivoluzione e per le persone coinvolte troppo alla leggera. Lo angosciava — e mi angosciava — il fatto che bastasse un tweet irresponsabile per distruggere una carriera costruita col duro lavoro di una vita. Lo rattristava il caso di Al Franken, che non meritava la gogna a cui era stato esposto per una fotografia di dubbio gusto ma innocua, il gesto di un guitto, quale era stato quell’attore comico prima di diventare senatore del Minnesota. Ma la pensava in modo del tutto diverso su Charlie Rose o Harvey Weinstein, che aveva chiamato con una parola che non è il caso di ripetere. E soprattutto — tipico di Roth — aveva voluto sapere quale era stata la mia esperienza. Quando glielo avevo raccontato aveva detto che era contento che mia figlia avrebbe vissuto in un mondo diverso. «And me too», e io pure, avevo scherzato mentre facevo sul serio.
Eravamo d’accordo di vederci il prossimo settembre. L’uscita del secondo Meridiano dedicato alla sua opera doveva essere l’occasione per una lunga chiacchierata per «la Lettura» e per ripensare a quei romanzi con il senno di poi. Aveva solo un dubbio: «Ma non mi hai già chiesto tutto?». E in effetti. Dieci ore di interviste filmate; almeno altrettante registrate nel corso di quasi vent’anni. Avevo anch’io paura di ripetermi. E invece, riflettendoci, non gli avevo mai chiesto tutto. Roth metteva sempre qualche veto, quando parlava on the record. Veti che però sparivano appena spegnevo il registratore. Se ho avuto un amico capace di parlare di qualunque cosa, di interessarsi a qualunque cosa, e di tirare le somme su qualsiasi argomento con lucidità e trasparenza, e aiutarmi nei momenti difficili, questo è stato Philip Roth. Sarebbe stato arduo superare quei veti, in settembre. Ma valeva la pena provarci.
Joseph Conrad, per esempio. Aveva mai confessato, Roth, l’importanza che avevano avuto i romanzi di Conrad e il personaggio di Marlow in particolare, il bystander di tante trame conradiane, nel dare forma a Nathan Zuckerman, l’osservatore a cui Roth affida il compito di raccontare dalla sua prospettiva gli avvenimenti della Macchia umana, o di Pastorale americana, o di Ho sposato un comunista? E per restare su Conrad, perché, prima di scrivere Nemesi, aveva passato tanto tempo nel suo studio a rileggere Lord Jim, come mi aveva raccontato, se non per studiare una storia di responsabilità tradite, e dare forma al senso di colpa che si abbatte sul responsabile di quel tradimento, per poi interpretarla a modo suo, ambientandola in un campo giochi di Newark, dove era nato?
La parola «amico» mi ricorda un fatto accaduto mentre giravamo il documentario Philip Roth: una storia americana, otto anni fa. Invece di intervistare altri scrittori sulla sua opera, come si fa di solito, gli avevo proposto di far parlare i suoi amici. Vecchi amici: persone con cui era andato a scuola, o all’università, o sotto le armi, o che gli avevano fatto compagnia negli anni in cui aveva vissuto in semi reclusione nella sua bella casa di campagna in Connecticut. Persone sconosciute al pubblico tranne una, Mia Farrow, che abitava e abita tuttora da quelle parti. E in effetti davanti alla macchina da presa Mia Farrow era stata brillante, come c’era da aspettarsi, tranne che per una cosa, mi pareva: la parte in cui aveva detto che Roth era un uomo capace di essere un vero amico, «una roccia» (cito a memoria). Mi era sembrata una banalità, una di quelle cose che si dicono così per dire, e volevo tagliarla.
Ma Roth si era impuntato: «Non pensarci nemmeno», aveva protestato. «Tu pensi che sia banale perché sei europea, ma riferita a me è il contrario. Non è così che mi vedono gli americani». Non come una brava persona, voleva dire. Non dopo i romanzi che aveva scritto. Non dopo quello che la sua ex moglie Claire Bloom aveva scritto su di lui.
«Will you stand by me?», ti schiererai dalla mia parte?, aveva detto alla fine di quella telefonata, uno o due mesi fa.
«Certo», avevo risposto un po’ stupita. Come se potesse non essere scontato. Come se la generosità, la lealtà, la dedizione che aveva sempre dimostrato non solo a me, ma agli amici che lo hanno accompagnato fino alla fine e che erano la sua famiglia, non fossero una garanzia sufficiente in questo mondo diventato imprevedibile.
Ma lui era così. Non dava mai niente per scontato.