Per un racconto lo accusarono di tradimento
Prima di Portnoy, prima di Zuckerman, di «Swede» Levov e Sabbath e di tutti gli altri, prima ancora che uscisse il libro d’esordio di Philip Roth, arrivò nelle edicole americane il sergente Marx. E scatenò, per usare un termine caro all’autore, il primo «massacro» («La vecchiaia non è una lotta, è un massacro»). Nathan Marx protagonista di Difensore della fede, racconto del 1959. Una partita a carte tra militari, una discussione sull’opportunità di far pulire le latrine di sabato a un soldatino ebreo sfocia in commenti brutali sulla guerra appena finita (è ambientato nel maggio 1945). Il battesimo di Roth sulle riviste letterarie di serie A e una carriera che stava già deragliando prima ancora di partire. L’editor della narrativa di «Esquire», Rust Hills (lanciò Nabokov, Cheever, Styron, Delillo, Ford), aveva capito che quel ragazzo del New Jersey era un genio. Ma il direttore Arnold Gingrich lo fermò. Gli ebrei, la Shoah, le latrine, i soldati: Roth avrebbe esposto la rivista ad accuse di antisemitismo (è contenuto in Goodbye, Columbus e cinque racconti, Einaudi, traduzione come sempre magistrale di Vincenzo Mantovani al quale tutti noi lettori italiani dobbiamo un ringraziamento). Il racconto, bocciato da «Esquire», alla fine uscì sul «New Yorker»: inevitabile la rivolta tra i lettori con abbonamenti cancellati, lettere di fuoco, Roth convocato nelle sinagoghe e dalla Lega Anti-diffamazione e accusato d’autolesionismo e tradimento. Era la prima medaglia al valore della sua carriera. D’altronde come diceva lo scrittore della sua vita, Kafka, «dovremmo leggere soltanto i libri che mordono e pungono». Motto non ufficiale di Roth, che citò anni dopo ne Lo scrittore fantasma. Secondo Kafka, quelli sono gli unici libri «capaci di rompere i ghiacci del nostro mare interiore».