Il giorno più amaro di Mattarella tra minacce, appelli e solidarietà
Sul web c’è chi evoca il fratello e il presidente rivive il giorno dell’assassinio
Critiche, attacchi e polemiche li aveva messi nel conto, il presidente della Repubblica. Sapeva che la sua decisione sul governo 5 Stelle-lega non sarebbe stata indolore. Ma la canea che si è scatenata sulla Rete, gli insulti, le accuse di «colpo di Stato», alcuni sindaci leghisti che staccano la sua foto dai municipi, un poliziotto catanese che lo contesta in divisa su un video, gli annunci di manifestazioni nella capitale per il 2 giugno (idea che a qualcuno fa pensare a un replay della marcia su Roma del 1922), tutto questo non lo poteva immaginare. E quando ha visto che lo si minacciava addirittura di morte («dovremmo fargli fare la fine del pezzo di merda del fratello»), Sergio Mattarella ha chiuso gli occhi sconfortato, rivivendo quel giorno a Palermo in cui tirò fuori dalla macchina Piersanti agonizzante, dopo gli spari di un commando della mafia.
Su questa disgustosa immondizia, la polizia postale ha aperto un’indagine, con un monitoraggio di siti web e social. Dal Colle esortano a non edulcorare i messaggi, «perché sono il risultato di un certo modo di fare politica». Dopo di che è pur vero che ieri si è manifestata anche un’altra Italia, che si è messa dalla parte del capo dello Stato anche con presidi in piazza e gli ha dichiarato solidarietà. Migliaia di persone (80 mila sull’hashtag «iostoconmattarella»), centinaia di associazioni, circoli e larga parte del mondo cattolico, che gli hanno scritto o telefonato.
Da oggi cominciano altri momenti difficili. Carlo Cottarelli salirà al Quirinale per sciogliere la riserva e presentare la lista dei ministri del suo governo «neutrale e di servizio». E tra ventiquattr’ore il giuramento lo farà entrare in carica. Escluso che ottenga la fiducia, dato che perfino il Pd sembra intenzionato a lasciare solo Mattarella, per il timore di «schiacciarsi» su di lui, il che potrebbe non pagare elettoralmente. Poi, basterà il voto di un solo ramo del Parlamento a obbligare il neopremier a tornare sul Colle per le dimissioni. Mattarella le accoglierà, come in una qualsiasi crisi di governo, preo gandolo di restare al suo posto «per il disbrigo degli affari correnti».
A quel punto, poiché tutte le opzioni alternative sono già state consumate negli scorsi 85 giorni, i due decideranno insieme la data dello scioglimento delle Camere. Sarà dunque un esecutivo dimissionario, ma in grado di assumere alcune misure urgenti, a condurci al voto. Che, se si volesse far aprire le urne nella prima metà di ottobre, imporrebbe — a termini di legge — il congedo del Parlamento intorno al 15 luglio.
Una road map tracciata da Cottarelli, mentre i tecnici del Quirinale non hanno neppure aperto un dossier sull’idea di impeachment agitata da Di Maio. Scenario che non esiste. Infatti, non basta l’articolo 90 della Carta per materializzarla. Serve, per il principio di legalità in materia penale, concretizzarla in una fattispecie di reato. E questa fattispecie — fa vergogna il parlarne — è descritta nell’articolo 283 del Codice penale: «Chiunque con atti violenti commette un fatto diretto e idoneo a mutare la Costituzione dello Stato della forma di governo, è punito con la reclusione non inferiore a 5 anni».
«Atti violenti» da parte del mite Mattarella? Di chi ha lasciato a 5 Stelle e Lega tutto lo spazio che chiedevano nella speranza che facessero sul serio, mentre volevano solo lucrare nuove elezioni. Scaricando sul Colle (cui qualcuno aveva imputato troppa condiscendenza) la responsabilità del progetto e alimentando un’irresponsabile contrapposizione tra le istituzioni e loro stessi, cioè «il popolo».
In fondo, riflettono gli intimi del Quirinale, il presidente ha fatto valere due cose: 1) le proprie prerogative, che voleva preservare intatte di fronte a un gioco che stava sotto gli occhi di tutti e che lui ha smascherato; 2) la tutela dell’unità economica dell’italia. Una decisione sofferta, la sua. Tale da produrre, e lo aveva intuito, un effetto di isolamento che potrebbe essere medicato solo dalla cultura del Paese, che dovrebbe raccogliersi intorno ai simboli dell’unità nazionale. Lo ricordano i consiglieri più sperimentati del Quirinale: «La parola dei presidenti è sempre stata accolta con rispetto, dal sistema dei partiti, e non ha mai comportato particolari problemi. Oggi invece assistiamo a una deriva nichilista che lascia senza fiato».