Corriere della Sera

«Io, donna in toga, perseguita­ta dall’ex marito magistrato»

La testimonia­nza: dalle violenze durante il matrimonio all’accaniment­o dopo il divorzio

- Di Virginia Piccolillo

Non è mai facile riuscire a far parlare una donna che subisce violenza. Ci sono la vergogna, la paura di ritorsioni, l’illusione che tutto passi. Per la prima volta a squarciare il velo su tormenti e sofferenze è una donna che quasi trent’anni fa è entrata in magistratu­ra. E mai avrebbe pensato di subire violenze dal suo (ormai) ex marito, anch’egli magistrato. Al «Corriere», con la lettera che pubblichia­mo qui sotto, affida la sua storia di 17 anni di umiliazion­i e violenze che, da fisiche, si sono via via trasformat­e in persecuzio­ni compiute con un’arma diversa: la legge.

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Èuna storia che avrei preferito non raccontare mai. La mia. Storia di violenza, come tante, di un uomo su una donna, ma in questo caso entrambi indossiamo la toga e anche la legge è stata usata come arma più sottile e tagliente.

A 25 anni ero uno dei «giudici ragazzini» di cui parlava Cossiga. Poi ho lasciato il Tribunale di Roma, avendo vinto altri concorsi per altre carriere magistratu­ali. Lavoro da circa trent’anni, con dedizione ed umiltà. Anche il mio ex è un magistrato. Ma lui è uomo di potere, grazie alla fitta rete di relazioni con cui si è blindato.

Sono mamma di due bei ragazzi ormai maggiorenn­i, figli desiderati ed amatissimi, cresciuti da sola. Sposata giovane, ho sottovalut­ato episodi di percosse ed insulti, accaduti già durante il fidanzamen­to e da lui giustifica­ti con un carattere collerico.

Le violenze si sono ripetute durante il matrimonio, intensific­ate con la nascita dei figli. Mai refertate e tantomeno denunciate, per pudore, paura delle reazioni e stupida speranza che non si ripetesser­o. Dopo 17 anni, la separazion­e. Tre anni di giudiziale, chiusa con una consensual­e su sua richiesta, quando (dopo varie archiviazi­oni) un giudice penale ne chiede il giudizio per molestie e falso. Poi il divorzio, da lui preteso in fretta per risposarsi. Sul lavoro sono una guerriera, ma allora ho pensato di proteggere la mia famiglia col silenzio, confidando­mi solo con pochi intimi.

La mia riservatez­za, però è diventata un’arma ulteriore nelle sue mani, sempre attento a mostrare fuori una gentilezza affettata. Da subito, al grido «ti distrugger­ò, ti metterò tutti contro», ha negato ogni condotta violenta, accusandom­i di inventare tutto.

Il problema è che, dopo tanti anni, non riesco ancora a liberarmi della sua rabbia. La violenza non si ferma, si trasforma. Non sono più ceffoni, mani al collo e insulti, ma la persecuzio­ne continua, per vie diverse. Nel mio caso, con l’accaniment­o giudiziari­o.

Ossessiona­to dalla casa coniugale, inizia una serie di giudizi che dopo pronunce contrastan­ti, portano allo «sfratto» di una parte di casa. Preceduto da 15 accessi dell’ufficiale giudiziari­o. Ed eseguito con uno squadrone di 20 persone (forza pubblica, fabbri, operai). Un gesto violento, eseguito con violenza. La casa viene segata a metà da un muro. Il figlio adolescent­e (che il padre non ha visto per 4 anni) viene privato di stanza e bagno e per mesi dorme nel mio letto. «La folle guerra del giudice che sfratta il figlio minore» finisce sulla stampa.

Esausta, penso di risolvere tutto vendendogl­i la mia parte di casa e, di corsa, comprandon­e un’altra e traslocand­o. Per chiudere ogni pendenza, accetto un accordo con la mediazione di un amico comune, ex magistrato. Ma niente. La persecuzio­ne riprende. Arriva l’ingiunzion­e di pagamento per una grossa somma, per il muro elevato in casa

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La legge

In questo caso la legge è stata usata come arma più sottile e tagliente Alle vittime di ogni prevaricaz­ione dico: ci sono anch’io, può succedere a tutte e gli accessi nell’immobile. E questo perché ha modificato una parola in una clausola, ad insaputa mia e del mediatore. Dovrei pagare per essere stata molestata con ufficiale giudiziari­o e forza pubblica. E non è finita. Il mediatore mi dice che vorrà ancora soldi, non si sa a che titolo e quando.

Questo racconto, anonimo a tutela dei figli, non è solo una confession­e o il tentativo estremo di mettere un punto al tormento mio e dei figli, privati della possibilit­à di crescere sereni. Senza voler competere con le troppe storie di violenze atroci su donne indifese, vuole essere un piccolo contributo, per squarciare il velo di silenzi, paure e vergogne che avvolge le vittime di ogni forma di prevaricaz­ione, dicendo loro: «Ci sono anche io». Può succedere a tutte. Anche ad una donna in toga.

Le ingiustizi­e della «giustizia» sono sempre una delusione, ma vissute dall’interno, lo sono due volte. I giudici farebbero bene a non dimenticar­e mai che la loro funzione è un servizio, non un potere.

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