«Io, donna in toga, perseguitata dall’ex marito magistrato»
La testimonianza: dalle violenze durante il matrimonio all’accanimento dopo il divorzio
Non è mai facile riuscire a far parlare una donna che subisce violenza. Ci sono la vergogna, la paura di ritorsioni, l’illusione che tutto passi. Per la prima volta a squarciare il velo su tormenti e sofferenze è una donna che quasi trent’anni fa è entrata in magistratura. E mai avrebbe pensato di subire violenze dal suo (ormai) ex marito, anch’egli magistrato. Al «Corriere», con la lettera che pubblichiamo qui sotto, affida la sua storia di 17 anni di umiliazioni e violenze che, da fisiche, si sono via via trasformate in persecuzioni compiute con un’arma diversa: la legge.
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Èuna storia che avrei preferito non raccontare mai. La mia. Storia di violenza, come tante, di un uomo su una donna, ma in questo caso entrambi indossiamo la toga e anche la legge è stata usata come arma più sottile e tagliente.
A 25 anni ero uno dei «giudici ragazzini» di cui parlava Cossiga. Poi ho lasciato il Tribunale di Roma, avendo vinto altri concorsi per altre carriere magistratuali. Lavoro da circa trent’anni, con dedizione ed umiltà. Anche il mio ex è un magistrato. Ma lui è uomo di potere, grazie alla fitta rete di relazioni con cui si è blindato.
Sono mamma di due bei ragazzi ormai maggiorenni, figli desiderati ed amatissimi, cresciuti da sola. Sposata giovane, ho sottovalutato episodi di percosse ed insulti, accaduti già durante il fidanzamento e da lui giustificati con un carattere collerico.
Le violenze si sono ripetute durante il matrimonio, intensificate con la nascita dei figli. Mai refertate e tantomeno denunciate, per pudore, paura delle reazioni e stupida speranza che non si ripetessero. Dopo 17 anni, la separazione. Tre anni di giudiziale, chiusa con una consensuale su sua richiesta, quando (dopo varie archiviazioni) un giudice penale ne chiede il giudizio per molestie e falso. Poi il divorzio, da lui preteso in fretta per risposarsi. Sul lavoro sono una guerriera, ma allora ho pensato di proteggere la mia famiglia col silenzio, confidandomi solo con pochi intimi.
La mia riservatezza, però è diventata un’arma ulteriore nelle sue mani, sempre attento a mostrare fuori una gentilezza affettata. Da subito, al grido «ti distruggerò, ti metterò tutti contro», ha negato ogni condotta violenta, accusandomi di inventare tutto.
Il problema è che, dopo tanti anni, non riesco ancora a liberarmi della sua rabbia. La violenza non si ferma, si trasforma. Non sono più ceffoni, mani al collo e insulti, ma la persecuzione continua, per vie diverse. Nel mio caso, con l’accanimento giudiziario.
Ossessionato dalla casa coniugale, inizia una serie di giudizi che dopo pronunce contrastanti, portano allo «sfratto» di una parte di casa. Preceduto da 15 accessi dell’ufficiale giudiziario. Ed eseguito con uno squadrone di 20 persone (forza pubblica, fabbri, operai). Un gesto violento, eseguito con violenza. La casa viene segata a metà da un muro. Il figlio adolescente (che il padre non ha visto per 4 anni) viene privato di stanza e bagno e per mesi dorme nel mio letto. «La folle guerra del giudice che sfratta il figlio minore» finisce sulla stampa.
Esausta, penso di risolvere tutto vendendogli la mia parte di casa e, di corsa, comprandone un’altra e traslocando. Per chiudere ogni pendenza, accetto un accordo con la mediazione di un amico comune, ex magistrato. Ma niente. La persecuzione riprende. Arriva l’ingiunzione di pagamento per una grossa somma, per il muro elevato in casa
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La legge
In questo caso la legge è stata usata come arma più sottile e tagliente Alle vittime di ogni prevaricazione dico: ci sono anch’io, può succedere a tutte e gli accessi nell’immobile. E questo perché ha modificato una parola in una clausola, ad insaputa mia e del mediatore. Dovrei pagare per essere stata molestata con ufficiale giudiziario e forza pubblica. E non è finita. Il mediatore mi dice che vorrà ancora soldi, non si sa a che titolo e quando.
Questo racconto, anonimo a tutela dei figli, non è solo una confessione o il tentativo estremo di mettere un punto al tormento mio e dei figli, privati della possibilità di crescere sereni. Senza voler competere con le troppe storie di violenze atroci su donne indifese, vuole essere un piccolo contributo, per squarciare il velo di silenzi, paure e vergogne che avvolge le vittime di ogni forma di prevaricazione, dicendo loro: «Ci sono anche io». Può succedere a tutte. Anche ad una donna in toga.
Le ingiustizie della «giustizia» sono sempre una delusione, ma vissute dall’interno, lo sono due volte. I giudici farebbero bene a non dimenticare mai che la loro funzione è un servizio, non un potere.