Il Rinascimento è già qui
Scenari Un saggio di Ian Goldin e Chris Kutarna (il Saggiatore) invita a guardare con fiducia al futuro che ci attende Oggi le opportunità sono maggiori dei rischi. Ma bisogna saperle cogliere
Stiamo vivendo in una nuova età dell’oro? Questo scorcio di terzo millennio è paragonabile come fermento creativo, capacità di innovazione e trasformazione delle società, al Rinascimento? Diciamocelo, la prima risposta che viene in mente è un bel «no». In un mondo sempre più piccolo, dove ogni singolo avvenimento soprattutto negativo sembra fare il giro del pianeta in pochi secondi, gettando ombre e non certo luci sulla nostra vita, l’ultima cosa che ci verrebbe da pensare è un parallelo con quel fulgido periodo che fu il Rinascimento. Eppure è proprio in questo mix tra innovazione tecnologica e discontinuità create dalla velocità con la quale avvengono i cambiamenti, che starebbe la liceità del parallelo.
Ci sono studiosi, incuranti dei furori degli
Il terzo millennio si presenta come un territorio fertile se l’umanità farà in modo di lasciar germogliare il genio
storici e degli accademici (chissà se del tutto a torto), come Ian Goldin, docente di Globalizzazione e sviluppo a Oxford, e Chris Kutarna, ricercatore e membro della Oxford Martin School, che hanno voluto scrivere un saggio intitolato proprio Nuova età dell’oro (il Saggiatore). Ma siamo certi che l’ago della bilancia indichi indubitabilmente la zona delle opportunità e non quella dei rischi? Perché è questo ciò che nel senso comune rappresenta la parola Rinascimento.
Quale che sia la risposta, facciamo fatica a mettere assieme il micro delle vite quotidiane, migliorate per molti nel mondo, e il macro rappresentato dalle continue tensioni tra Paesi ed economie. Si può anche aver passato indenni accadimenti come quelli dei primi anni Duemila, dall’attentato alle Torri gemelle fino alla crisi del 2008; ma le ferite fisiche o anche solo psicologiche si fanno sentire.
E così, come nel libro di Goldin e Kutarna, anche nell’ultimo lavoro di Yuval Noah Harari, Homo Deus (Bompiani), il tentativo è quello di convincere la parte di umanità che vive in Occidente, che deve abituarsi a collocare se stessa in un globo che si presenta ai suoi occhi ogni mattina come una sfida, uno scenario difficile da affrontare, incerto nel futuro, pronto a lasciarci indietro se non addirittura a lasciarci andare, ma che in realtà è territorio fertile se si riesce a cogliere occasioni, a lasciar germogliare il genio.
Non è facile. Soprattutto quando la politica che dovrebbe offrire orizzonti, una visione più tranquillizzante su quello che ci attende, non fa altro che reiterare allarmi e proporre arrocchi di fronte a una realtà che avanza, più che attacchi alla sua complessità. Goldin e Kutarna dicono: «L’umanità ha sempre avuto due strategie di sopravvivenza, resistenza e resilienza. L’idea alla base della prima consiste nel rafforzare ogni parte in modo tale che sia meno probabile che si rompa… La seconda è diversificare, in modo che, anche quando una parte si rompe, l’intero sia in grado di funzionare».
Difficile però diversificare se ci si vuole rinchiudere all’interno dei propri confini, al multilateralismo si preferisce un bilateralismo apparentemente più facile da gestire, ma che ci lascia in balia di un mondo sempre più complesso e privo di direzione. E ancora più difficile farlo se americani e britannici, un tempo difensori del libero scambio e dell’apertura, hanno scelto, con la presidenza di Donald Trump e la Brexit, di lavorare contro di essi.
Non meraviglia quindi che, sottolineano i due autori della Nuova età dell’oro, sia «l’estrema destra (che cerca di invertire la tendenza all’apertura della società verso omosessuali, immigrati e responsabilità globali) sia l’estrema sinistra (che cerca di invertire la tendenza all’apertura della società verso il commercio e l’impresa privata)» godano «di successi elettorali in una buona parte del mondo sviluppato».
E allora, è possibile paragonare gli anni che, dal 1450 al 1520, videro la «fioritura del genio» in Europa a questo periodo così convulso? La scoperta dell’america e la caduta del Muro di Berlino, l’invenzione della stampa di Gutenberg e Internet, il diffondersi degli strumenti finanziari della Firenze dei Medici e il libero scambio, so- no solo suggestivi paralleli o possono aiutarci a mettere il mondo in una «prospettiva»? A fare come diceva Leonardo per gli artisti: «La prospettiva è guida e porta, e senza di quella nulla si fa bene»?
Non basta elencare i numerosi obiettivi raggiunti in questi anni per convincere chi ha vissuto in età di continuo sviluppo. Come quel miliardo di persone che dal 1990 a oggi sono uscite dalla povertà. O il fatto che abbiamo imparato, anche se non vogliamo completamente rendercene conto, a combattere fame, guerre e invasioni. Come racconta Harari, per la prima volta nelse la storia muoiono più persone perché mangiano troppo di quelle che muoiono perché mangiano poco, e infinitamente di più muoiono di vecchiaia di quelle che soccombono alle infezioni.
La verità è che vediamo i rischi, non le opportunità. Come coloro che, imprese o cittadini che fossero, nella recente crisi, invece di imparare a essere resilienti e a diversificare, hanno pensato solo a resistere difendendosi, senza investire sul futuro. Quanti di loro hanno capito che le città stavano diventando il motore dello sviluppo? Oggi le metropoli generano i quattro quinti dell’attività economica globale. Le cento città maggiori producono il 40% del Prodotto interno lordo mondiale. E non si tratta solo delle solite New York, Singapore e Tokyo. Ma anche dei primati di Tel Aviv nella tecnologia, di Copenaghen nelle criptovalute, quelli della nostra Milano nel campo delle eccellenze nella scienza, nella comunicazione e nel design.
Le tensioni che viviamo quotidianamente sono figlie di questo mondo che cambia. Guai a dimenticare che un dollaro su quattro guadagnato nel mondo oggi arriva «dalla vendita di beni ad altre nazioni». O che il valore assoluto sia passato da 3.500 miliardi di dollari del 1990 a 20 mila miliardi odierni; passando per di più attraverso crisi come quella del 2008.
Resta la percezione del rischio. La percezione di un mondo senza guida. Dove il Fisco non riesce più a essere il motore della redistribuzione del reddito. Dove la finanza, originariamente lo strumento che doveva fare arrivare soldi alle attività che non ne avevano per potersi avviare, si è trasformata in elemento di disordine. E dove, più che l’allargamento progressivo del benessere raggiunto, prevale la paura della sua perdita.
Non basta allora accontentarsi di comprendere il cambiamento. Si devono ritrovare quella curiosità intellettuale e l’ambizione culturale che fecero grandi l’europa e il mondo intero. Soprattutto devono ritrovarle quelle persone che ogni giorno hanno l’ambizione di gestire la delega di potere che a ogni elezione ci chiedono.
Serve più resilienza: la capacità di fornire risposte diversificate alle nuove sfide invece di opporre una resistenza rigida