La biografia in forma di film È «l’arte totale» di Martone
Il regista, al Madre, si confronta con nuovi linguaggi
«Il tema che apre la terza edizione di Casacorriere (Comunità e Rete: la religione del web) è legato al mio percorso e in particolare alla mostra sul mio lavoro che va dal 1977 al 2018, allestita al Museo Madre di Napoli». Mario Martone alla vigilia di questi due appuntamenti, il primo il 31 maggio, il secondo il primo giugno, sottolinea il nesso che li lega.
Quarant’anni di attraversamenti nei linguaggi espressivi del teatro, del cinema, dell’opera. Che rapporto ha avuto con i passaggi dell’evoluzione tecnologica?
«Molto stretto. D’altra parte sono stato testimone di un cambiamento epocale avvenuto a metà degli anni 80. Profeticamente Orwell lo aveva intuito in 1984, rovesciando le cifre del ’48, anno simbolo delle rivoluzioni europee. Una trasformazione fra un modello di ricerca in cui le nuove tecnologie apparivano
Contaminazioni
Le arti visive sono state sempre al centro del mio lavoro. E il mio prossimo film è dedicato a Beuys
tese a un’evoluzione della società e il rischio che il sistema di potere le trasformasse in uno strumento di controllo. Dialettica tutt’ora aperta, evidenziata dalla generale adesione al mondo del web, simile a una pellicola che ricopre tutto e che ricorda le mappe dei cartografi di Borges». Web come fede e non come occasione?
«Non voglio dire questo. Noi siamo una generazione a cavallo di svolte senza precedenti, non sospesi solo fra due secoli, ma fra due millenni. E per di più con tutto il peso della cultura e delle idee precedenti, ma destinati ancora a lungo a navigare di notte in mare aperto senza conoscere la meta».
Insomma una condizione sperimentale a lei cara?
«È così, sin dai tempi dei miei primi spettacoli, penso ad Avventure al di là di Thule del ’77 o allo stesso Tango glaciale dell’82, quando mi era già chiara l’idea di andare oltre la tradizione ma anche la retorica delle avanguardie. Teatro? Performance? Istallazione? Difficile dirlo ma era ricerca, la stessa che mi ha poi spinto a cambiare sempre, pur mantenendo l’idea della costruzione collettiva di uno spettacolo, che da Falso Movimento,
passa per Teatri Uniti e giunge oggi ai ragazzi del Nest».
Materia che il pubblico ritroverà in «1977-2018. Mario Martone al Madre»?
«Sono un regista e ho voluto rispondere a questo invito mostrando il mio lavoro e non una serie di documenti o fotografie. Ho realizzato un film di 9 ore e mezza, tante quanto dura l’apertura del museo, che raccoglie il mio cinema ma anche spezzoni di spettacoli o episodi come la costruzione del Teatro India di Roma.
Un loop senza cronologia e senza inizio né fine. La sintesi è nel manifesto in cui l’otto è orizzontale come simbolo dell’infinito». E il pubblico?
«Ci sono 40 sedie girevoli su di una scena centrale che ricorda quella di Ritorno ad Alphaville, uno spettacolo del 1986, sequel del film di Godard, che rimetteva al centro della ricerca la parola, comprendendo anche Toni Servillo e Antonio Neiwiller, con cui avremmo fondato Teatri Uniti. Ogni spettatore avrà una cuffia e potrà orientarsi verso uno dei quattro schermi, iniziando così un proprio percorso di montaggio, sempre modificabile». Un’opera aperta.
«Le arti visive sono sempre state al centro del mio lavoro, sin dall’esordio di Falso Movimento nella Galleria di Lucio Amelio. Il mio modello è Fluxus, movimento fatto di arte, musica, teatro, video, danza. Un modello di arte totale, a cui si ispira anche il mio nuovo film, Capri batterie, dedicato a Beuys, che uscirà in ottobre».
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