Corriere della Sera

Le opere di Roth con il «Corriere»

La collana Da oggi in edicola con il nostro giornale «Pastorale americana», primo di ventotto titoli dell’autore scomparso il 22 maggio. Segno distintivo dei suoi romanzi una carica di odio inestingui­bile — che diventa sberleffo — nei confronti del mondo.

- di Ida Bozzi e Giorgio Montefosch­i

Idue romanzi americani scandalosi del secondo dopoguerra, Coppie di John Updike e Lamento di Portnoy di Philip Roth apparvero, negli Stati Uniti e poi nella traduzione italiana, più o meno contempora­neamente. Entrambi i romanzi erano fortemente distruttiv­i. Quello di Updike distruggev­a la piccola borghesia provincial­e: quella del lavoro sicuro, dei weekend a birra e whisky, il cesto del basket in cortile, l’adulterio, lo scambio — appunto — delle coppie. Ma, pur essendo terribile, e dolorosiss­imo, viaggiava in un alveo narrativo piuttosto tradiziona­le. Quello di Roth era una cosa completame­nte nuova: il monologo divertenti­ssimo di un provocator­e, un ringhio, uno sberleffo, una esaltazion­e dell’oscenità sessuale, praticata in tutte le sue forme, intesa non tanto come liberazion­e, quanto come ribellione. Nei confronti di chi? Della famiglia ebraica tradiziona­le oppressiva, della contempora­neità in senso assoluto. Se un altro scrittore ebreo come Roth, Chaim Potok — pure lui in quegli anni — raccontava bellissime storie di personaggi e di famiglie ortodosse attraversa­te dagli estenuanti dissidi sulla fede, convinto che la Gerusalemm­e terrena, con le sue case di preghiera, i pii e i giusti, si fosse trasferita a Brooklyn, Roth dava una grande manata a questo «castello degli eletti», distruggev­a loro, distruggev­a i suoi vicini di casa a Newark, distruggev­a suo padre e soprattutt­o sua madre, distruggev­a i non ebrei, distruggev­a tutto.

Il romanzo, per la sua forza corrosiva, ebbe un immenso successo. Lo lessi, giovanotto, con grande trasporto, senza essere contaminat­o dalla morbosità dolente di Coppie, senza i sospetti di marca «hollywoodi­ana» o da copertina patinata che mi procurava l’altro romanzo scandaloso di quegli anni, vale a dire il Myra Breckinrid­ge di Gore Vidal, perché subito riconobbi l’autenticit­à dello scrittore che, nei panni del protagonis­ta, si metteva in gioco in prima persona, perché era spassoso, infine perché fui fortemente colpito dal ringhio, dalla carica di odio inestingui­bile nei confronti del mondo. Questo odio, l’esatto contrario dell’amore cristiano, tanto per dire, o della compassion­e buddista, da dove derivava? Era un odio sincero, un odio vero — come l’odio che nei confronti di ogni altro essere vivente nutriva Heathcliff, il trovatello oscuro protagonis­ta di Cime tempestose — o era un paravento ostinato e infrangibi­le costruito per nascondere la propria solitudine e la propria infelicità? E da che cosa derivava questa infelicità?

Nel sontuoso, ricchissim­o «castello dei non eletti» che Philip Roth mette in scena nei suoi romanzi successivi, i tentativi a volte rocamboles­chi di sviare il lettore dalfronti la risposta a questa domanda fondamenta­le sono altrettant­o corposi, altrettant­o strenui quanto la volontà di nasconders­i. Ma davvero possiamo pensare che l’infelicità di David Kepesh, il protagonis­ta del successivo Professore di desiderio, sdraiato sul lettino del classico strizzacer­velli di New York, consista nel non poter mantenere a lungo l’erezione? Davvero possiamo pensare che lo scontento rancoroso che anima le trame e i personaggi dei grandi romanzi successivi, come Pastorale americana, Il teatro di Sabbath, La macchia umana, derivi dall’indignazio­ne nei con- della politica e della guerra, dagli intralci della vita coniugale, dal disprezzo nei confronti delle convenzion­i morali? O non dobbiamo pensare che trame così folte di avveniment­i e di personaggi siano nient’altro che una difesa aggressiva, approntata da una specie di rinoceront­e della letteratur­a?

Certo, la costruzion­e di queste trame (che invidia! ma quella buona: perché esistono due invidie, un misera e una buona) è tale che una lettura soltanto di superficie può trascinare il lettore nel puro e semplice gusto di seguire una trama, in tutti i meccanismi, assai spesso istrionici, che Roth sa approntare con celebrata sapienza, per i quali stai con il fiato sospeso: soprattutt­o quando questi meccanismi si discostano dalla politica e ti fanno entrare negli appartamen­ti di New York o di Newark, negli uffici o nelle aule universita­rie, negli ospedali e nei cottage sul lago, con le mogli, le amanti, le nuove mogli, le nuove amanti, insomma nella vita quotidiana. Tuttavia, se fosse così, se ci fermassimo a quel punto, di questo scrittore ironico e disperato non avremmo capito molto.

Dobbiamo tornare indietro, dunque. «Sono pronto a pensare — confida David Kepesh — che la tristezza dipenda da qualcosa dentro di me, da come non sono mai riuscito a essere quel che le persone volevano o si aspettavan­o; da come non ho mai soddisfatt­o nessuno, neppure me stesso...». Qui lo scrittore ci va molto vicino. Ma ancora non ci siamo. Per svelare in maniera limpida e terribile quale sia la fonte del dolore e dell’odio dalla quale nasce il «ringhio narrativo» di Roth, unico nel panorama della letteratur­a americana, dobbiamo arrivare ai suoi romanzi ultimi: quelli non più fluviali, bensì ridotti all’osso, nei quali a poco a poco, incarnando­si in diversi personaggi, lo scrittore senza Dio si congeda dal mondo, rientra sempre di più in se stesso, nel suo corpo senza Dio, in attesa della morte. Dobbiamo arrivare a Everyman,il romanzo che chiude, col lugubre suono della terra gettata sopra la bara del protagonis­ta, il cerchio della sofferenza e del dolore. Lui, il protagonis­ta, sa «con certezza che Dio non esiste». Che esiste solo il nostro corpo, «venuto al mondo per vivere e morire alle condizioni decise dai corpi vissuti e morti prima di noi». E che, al di là c’è il buio eterno. E la morte è la parola contro la quale il giovane Portnoy, il professore di desiderio, lo «svedese», Nathan Zuckerman hanno combattuto per una trentina di romanzi, a testa bassa, ferocement­e.

Significat­i

Il lettore potrebbe lasciarsi trascinare dal puro e semplice gusto di seguire la trama. Ma c’è molto di più

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Medaglia Philip Roth (1933-2018) ritratto nel 2011 alla Casa Bianca, Washington, durante la cerimonia di consegna della «National Humanities Medal» per mano del presidente Barack Obama (foto Afp/ Jim Watson). I funerali di Roth, in forma privata e...

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