Sulle aziende il «rischio Paese» e il rincaro dei beni importati
Il ritorno alla lira piace molto agli imprenditori perché nella svalutazione della moneta vedono un’opportunità per tornare a essere competitivi sui mercati internazionali e, semplificando, per giocarsi la partita con i colleghi tedeschi o francesi che non scontano il «rischio Paese». In linea teorica è così, ma in pratica non del tutto. Specie se si guarda al tessuto industriale che caratterizza il nostro Paese. Nelle catene globali del valore l’effetto della svalutazione competitiva è attenuata per chi fa prodotti ad alto valore aggiunto: innovazione e qualità sono i driver, che richiedono importanti investimenti in ricerca. Per i big che si finanziano in Borsa il «rischio Paese» continuerà ad avere un peso. La svalutazione incide invece su chi fa prodotti poco sofisticati e a basso valore aggiunto. Ma in questo caso la concorrenza è rappresentata dalla Cina e da quei Paesi in cui i costi di produzione sono bassissimi e difficilmente replicabili in Italia. Le nostre aziende potranno dunque avvantaggiarsi della svalutazione della moneta, ma dovranno fare i conti con l’aumento dei costi dei beni importati che lievitando concorreranno a ridurre la competitività finale. Bisogna aggiungere anche il fattore salari. Se per effetto dell’inflazione le imprese saranno costrette ad aumentare gli stipendi per adeguarli al costo della vita, si vedranno erodere ulteriormente il vantaggio rappresentato dalla svalutazione. Comunque, semplificando, chi esporta continuerà a esportare, ma chi ha nel mercato interno la propria fonte di ricavi dovrà fare i conti con il potere d’acquisto ridotto delle famiglie, in una spirale che anziché spingere i consumi rischierà di frenarli.
I limiti
Non basta più svalutare per vincere la sfida a livello globale