«Io ballo ancora, era il mio sogno Mi ha tenuta su»
«Banderas in foto, un vestito rosso... Poi il volontariato» «Poter crescere la mia bambina: una vita nuova» «Ho affrontato tutto da donna sola Ora cucio alleanze»
Per Claudia Gariboldi, 66 anni, la prima preoccupazione quando ha saputo che doveva essere operata di tumore al seno sono stati i suoi ragazzi e le sue ragazze: «Insegnavo tedesco alle superiori, era maggio e presto ci sarebbero stati gli scrutini — spiega —. Ho lavorato fino al giorno prima, poi ho annunciato ai miei alunni che mi dispiaceva ma per un po’ li dovevo lasciare». La prima sorpresa è arrivata da loro: «Una studentessa mi ha dato un poster di Antonio Banderas, sapeva che era il mio attore preferito da un esercizio fatto in classe — racconta —. “Quando starà in ospedale lo guardi un po’ prof, magari starà meglio”, mi ha detto. Ce l’ho ancora quel poster». Il resto l’ha imparato in mezzo alle altre degenti: «Ho scoperto che mi piaceva stare vicina alle donne mentre passavano quei momenti di difficoltà — aggiunge —. Facevo ancora chemio e radioterapia quando ho chiesto di entrare nei volontari dello Ieo». Da allora sono passati 20 anni, oggi Gariboldi presiede la loro associazione, che si chiama Sottovoce, e per il convegno di Milano indossa il vestito rosso che le ha regalato la madre 15 giorni dopo l’operazione: «È un segnale che la vita è bella», dice con un sorriso: «I volontari mi hanno dato una consapevolezza nuova: che non siamo soli. E ogni volta che torno dopo aver fatto la volontaria in ospedale penso che è la palestra della mia anima».
«Mi è arrivata la diagnosi quando stavo finendo l’università e il mio primo pensiero è stato: voglio diventare un esempio di persona che ce l’ha fatta». Con quel responso, tumore metastatico al seno, Elisabetta Iannelli, 50 anni, ha passato metà della sua vita. Non l’ha fermata: avvocata, vicepresidente dell’associazione italiana malati di cancro, ha dedicato la carriera a tutelare i diritti dei pazienti oncologici. «Volevo cambiare la vita delle persone dopo la malattia. Ed evitare alle donne la triplice discriminazione sul lavoro: per il sesso, perché madri, perché malate». Iannelli si è battuta per facilitare il riconoscimento della disabilità oncologica e il part-time ai malati. La prossima sfida riguarda le lavoratrici autonome o free lance «coloro che sono più a rischio povertà dopo il cancro — spiega —. In generale il lavoro è fondamentale: ha una valenza terapeutica. La vita è prima di tutto progettualità e se non possiamo progettare la vita dopo il cancro allora smettiamo di vivere». Iannelli è riuscita a farlo anche sul piano familiare: «Ho avuto un dono speciale, mia figlia, che oggi ha 11 anni. Per diventare genitori, biologici o adottivi, dopo la malattia devi affrontare delle paure in più, perché ti preoccupi di poter crescere i tuoi figli — dice —. Ma è anche un’apertura grandissima alla vita. Io adesso posso dire che in questi 25 anni ho vissuto e ho vissuto intensamente».
«Provavo ad alzare le braccia: non ci riuscivo, facevano male ed erano pesanti. Allora mi sedevo sul divano, con qualcosa di bello da guardare in tv, qualcosa di buono da sgranocchiare e i miei gatti. Iniziavo ad accarezzarli, poi passavo a movimenti di danza orientale, che sono più leggeri, e di classica. A fine serata riuscivo a portare in alto le braccia». Una routine che Gigliola Foglia, 53 anni, comasca, ha inventato da sola e ripetuto ogni giorno dopo che è stata operata di cancro nell’autunno del 2017, una mastectomia bilaterale: «Non ho mai avuto paura di morire, avevo paura — dice — di non potermi più prendere cura delle creature umane e feline che mi sono affidate. E di non poter più ballare: classica e danze irlandesi, le mie passioni. Chiedevo sempre ai medici: quando posso ricominciare?». Foglia, come chiunque si ammala, ha dovuto fare i conti con l’imprevisto: «Mi ero chiesta spesso come avrei reagito di fronte a una cosa del genere: non penso di essere coraggiosa ma ho scoperto che volevo recuperare prima possibile la mia vita». L’ha aiutata, insieme alla sua determinazione. «A dicembre, due mesi dopo l’intervento, sono tornata a danzare: la fisioterapista mi ha detto che avevo recuperato benissimo la mobilità. Poi a gennaio — aggiunge — sono tornata di nuovo a gareggiare». Di per sé, una vittoria.
«Sono una di quelle donne che hanno dovuto affrontare la malattia da sole: è ancora più difficile. Quando mi sono vista persa mi hanno aiutato le testimonianze delle altre pazienti: trovare una rete intorno è fondamentale». Iole Avolio, impiegata cinquantenne, è arrivata all’istituto europeo di oncologia, a Milano, da Napoli. «Sono stata fortunata: la mia dottoressa, a Pozzuoli, ha diagnosticato il tumore al seno quando era ancora molto piccolo, sotto il centimetro, e ho potuto operarmi subito». L’intervento, un mese fa, è andato bene. Le difficoltà però sono arrivate dopo: «Io non ho un compagno o figli, in quei giorni mi ha assistita un’amica — racconta —. Una volta ritornata a casa, però, mi sono sentita molto sola: le mie amiche sono sparite, forse per paura di non saper affrontare quello che stava succedendo». È stato l’aspetto più duro: «Ho provato molta rabbia, poi però ho detto basta, non potevo andare avanti così: adesso ho ricominciato a ricucire i rapporti che non funzionavano più». Un’occasione di rimettere ordine nella sua vita. Con sé ha portato un progetto: «In ospedale ho trovato delle degenti che non avevano chiesto ai loro familiari di stare lì con loro: noi donne dobbiamo imparare a farci aiutare. Mi piacerebbe che questo modello di assistenza dopo l’operazione venisse adottato anche al Sud: io ho deciso di fare qualcosa fondando un’associazione che aiuti le pazienti sole».