Corriere della Sera

Il Tav, Parigi e noi (che non siamo seri)

- di Gian Antonio Stella

Mettetevi al posto della Francia: firmereste nuovi accordi con l’italia? È la domanda che sorge spontanea, per usare la formula di rito, mettendo a confronto due documenti. Da una parte un’ansa del 5 dicembre 1989, dall’altra il contratto firmato da Matteo Salvini e Luigi Di Maio per il governo saltato all’ultimo istante. La prima annuncia che «il comitato infrastrut­ture del consiglio dei ministri dei trasporti della Cee ha accolto la proposta italiana del collegamen­to Lione Torino» dovuto all’importanza «di un collegamen­to veloce tra Lisbona, Marsiglia, Lione, Torino, Venezia e Trieste». Il secondo dice: «Con riguardo alla Linea ad Alta Velocità Torinolion­e, ci impegniamo a ridiscuter­ne integralme­nte il progetto nell’applicazio­ne dell’accordo tra Italia e Francia». Formula evasiva che «Giggino ‘o quasi premier» ha poi tradotto così: «La Torino-lione non serve più, poteva servire trent’anni fa, ora è inutile. Andremo a parlare con la Francia». Ora, che il Tav in Val di Susa sia più o meno utile è un tema reale, non affrontarl­o senza discuterne da subito coi sindaci e la popolazion­e è stato un grave errore e le ripetute modifiche al progetto originario (tali da far riconoscer­e a Marco Ponti, tra i guru no-tav, che «il Tav è sempre uno spreco di soldi, ma ormai infinitame­nte inferiore al progetto iniziale» tanto da esser ormai un problema secondario rispetto ad altri) dimostrano che i lavori erano partiti proprio col piede sbagliato. C’è un tema però che, comunque vada a finire con le nuove elezioni in arrivo, non può essere ignorato. Il Tav che si cominciò a immaginare negli anni 80, a partire da quella lontana decisione nell’’89 del comitato trasporti della Cee (C’era ancora la Cee!) è stato via via confermato dal VI e dal VII dei governi di Giulio Andreotti e giù giù da quelli di Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi, Silvio Berlusconi, Lamberto Dini, Romano Prodi, Massimo D’alema, ancora Giuliano Amato, ancora Silvio Berlusconi, ancora Romano Prodi, ancora Silvio Berlusconi, Mario Monti, Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Per un totale di sedici governi consecutiv­i di centro, di destra e di sinistra. Su un arco di 29 anni. Ventinove! Al di là delle ragioni e dei torti, un Paese serio può davvero permetters­i di tirarla in lungo su un contratto per tre decenni? E se lo facessero gli altri con noi?

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