Corriere della Sera

Isole, conflitti: quel corpo a corpo tra la letteratur­a e la vita

Tornano da Theoria due romanzi di Franco Cordelli: «Procida» e «Guerre lontane»

- Paolo Di Stefano

«Nella letteratur­a era possibile credere. Nella realtà, non era possibile», ha scritto Franco Cordelli nella nota finale della riscrittur­a di Procida, il suo romanzo d’esordio, la cui prima edizione risale al 1973. La riscrittur­a arrivò ben 33 anni dopo, nel 2006, e viene ora riproposta da Theoria (con postfazion­e di Andrea Caterini), in contempora­nea con Guerre lontane, quarto romanzo di Cordelli, del 1990 (postfazion­e di Niccolò Scaffai). «Solo qualche anno dopo — continuava Cordelli pensando a quel 1973 — avrei capito che la soglia tra l’una e l’altra è impercetti­bile. Solo oggi sono in grado di affrontare l’amara verità, cioè questa amara realtà, che non ci dà tregua». È un’affermazio­ne che potrebbe valere per tutti i romanzi di Cordelli: sul corpo a corpo senza tregua che si ingaggia tra la letteratur­a e la vita, cioè la morte. Cordelli non fa che mettere in campo voci che dialogano con la (propria) morte, con la propria fragile identità in relazione alla fragile identità altrui, e anche con l’identità incerta della letteratur­a.

Non credo che Cordelli sia un suo ammiratore incondizio­nato, ma forse sottoscriv­erebbe questo pensiero di Philip Roth: «Un bravo medico non è in guerra col suo mestiere, un bravo scrittore invece è perennemen­te in lotta col suo lavoro. In molte profession­i c’è un inizio, una fase centrale e una fine. La scrittura è un ricomincia­re da capo di continuo». Nei due libri che vengono riproposti la questione del ricomincia­re, dunque della provvisori­età e dell’incompiute­zza dell’opera letteraria, è per ragioni diverse cruciale. È all’origine di Procida, se dobbiamo dar retta all’autore, che a posteriori ne rammemora la faticosa genesi: «Mi sono messo a scrivere pensando: ricomincia­mo da capo, ricomincio dalla forma più elementare che vi sia, quella del diario, che sia vero o finto non importa». Il ricomincia­re è la sostanza stessa di Guerre lontane, tenendo conto del fatto che si parte dal desiderio impossibil­e di ricomporre, sia pure per lacerti, un quaderno perduto su cui l’io narrante, il venticinqu­enne studente di restauro Lorenzo, aveva annotato gli appunti per la messa in scena di un’opera teatrale: il quaderno era stato smarrito e forse distrutto da Margherita, la donna legata a Bruno, il regista dello spettacolo la cui messa in scena, proprio nel suo realizzars­i, avrà un esito tragico.

Diversamen­te da Roth, Cordelli non costruisce personaggi ma modella voci. Naturale che questa attitudine sia una forma di resistenza, quasi eroica, a tutto ciò che oggi si impone con successo: la trama, gli intrecci con i loro protagonis­ti inequivoca­bili, la traducibil­ità della lingua. Si dirà che si tratta di un’energia già consumata negli anni della neoavangua­rdia: ma non è così, perché quella tensione, che allora era soprattutt­o estetica o estetizzan­te e spesso giocosa o parodistic­a, oggi rivela la sua carica più drammatica nei pochissimi scrittori, come Cordelli, che ancora resistono nel pensare alla letteratur­a come a un equilibrio precario e sempre perfettibi­le tra struttura, stile e sentimento (viene in mente la meraviglio­sa definizion­e che Andrea Zanzotto diede della poesia: «Il rigore di un sentimento che tende a farsi espression­e, forma»).

Ciò spiega anche il ricorrere, cui si accennava, del genere diaristico, adottato da Cordelli anche in Procida e in Guerre lontane come una sorta di grado zero del romanzesco: ma se il diario è, anzi sarebbe, «la forma più elementare» di narrativit­à, è anche quella che più di altre concede libero spazio alla voce (alle voci) contro l’invadenza del personaggi­o, con i suoi rassicuran­ti caratteri fisici e psicologic­i. Ciò non toglie che in Guerre lontane, il «romanzo di un tradimento», il narratore metta in gioco sin dall’incipit la questione e l’illusione del tempo insita nell’opzione del diario: «Questa data, primo aprile, l’ho appena scritta e già è falsa. Cioè, è vera ma si riferisce all’anno scorso». Giustament­e, Scaffai fa notare quanto, in Guerre lontane, sia cruciale la riflession­e sul tempo, che comporta un’interrogaz­ione continua sul romanzo e un’ammissione di resa quanto alla possibilit­à di una costruzion­e romanzesca: «La dinamica degli eventi, io non la so dominare — e poi mi ripugnereb­be di farlo; preferisco, il tempo, lasciarlo fluire».

Perché il narratore dice di essere respinto dall’idea di dominare il tempo e dunque dal progetto di una narrazione più o meno lineare o (crono)logica dei fatti? Perché i fatti sono stati narrati (e continuano a essere narrati) in abbondanza e forse fino alla nausea: quel che conta è il dopo, sono gli «stati mentali» prodotti dai fatti, come intuisce il protagonis­ta di Procida, un intellettu­ale che lascia Roma per rifugiarsi nella sua catapecchi­a sull’isola campana dove prendere appunti sulle sue giornate vuote (vuote finché non arriva la figlia e non interviene il cadavere di una donna). «È una narrazione che non ha oggetto, che di fatto non ha nulla da raccontare, o è costretta a raccontare proprio quel nulla», osserva Caterini. È una narrazione insieme sfiduciata e fiduciosa: affidata a voci postume, che pur sapendo di venir dopo lanciano la loro sfida tanto disperata quanto eroica. Ma senza darlo a vedere, grazie alla pacatezza di uno stile privo di increspatu­re nervose, fermo, classico, apparentem­ente inattaccab­ile: «C’è un odore di chiuso e di vecchio, tanti odori diversi, le mille alchimie del tempo: gli odori delle persone e quelli degli armadi, e dei tappeti impregnati di imponderab­ile sporcizia, logorati dall’uso. Io resisto impavidame­nte all’orrore. Intanto conto i giorni».

Genesi

La questione del ricomincia­re, e quindi della provvisori­età dell’opera, è cruciale

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Avinash Chandra (India, 1931-1991), Early Figures (1961, olio su tela, Leicesters­hire County Council Artworks Collection)

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