Corriere della Sera

TROPPE PIAZZE PER IL 2 GIUGNO

- di Aldo Cazzullo

Una Repubblica che fosse celebrata, nel giorno del suo anniversar­io, in tre piazze diverse, sarebbe già di per sé una Repubblica divisa e indebolita. Ma l’italia riesce ad andare oltre: in un momento di grave crisi istituzion­ale e finanziari­a, si concede il lusso di convocare una manifestaz­ione in difesa del presidente della Repubblica, e due contro; salvo magari farle diventare pro, ora che la situazione si è evoluta in modo gradito alla propria parte politica. Non consola notare la schizofren­ia sottesa a tutto questo. Di Maio si è atteggiato per settimane a pupillo di Mattarella, poi ne ha chiesto l’impeachmen­t, ha indetto una protesta appunto per il 2 giugno, infine è tornato sul Colle a trattare e oggi a giurare felice.

Salvini almeno non fa mistero di faticare a intendersi con il presidente. Ma, quando si parla della più alta magistratu­ra della Repubblica, il problema non è solo la dignità di una persona; è la tenuta della democrazia, l’idea di un destino comune.

Manifestar­e è sempre lecito. Criticare pure. Si critica il Papa, si può criticare anche un capo dello Stato; magari volgendo gli attacchi in elogi, a seconda di come si concluderà questa crisi surreale. Ma la Repubblica per definizion­e è una sola; e non può essere rinnegata o piegata a fini di parte.

Per questo lascia perplessi anche la formula che sta nascendo all’ombra della piazza di sinistra, il «fronte repubblica­no». L’aggettivo nel lessico politico italiano non ha la valenza che ha in Francia, non fa pensare alle istituzion­i ma a un partito mai andato oltre il 5%. Se poi questo fronte repubblica­no venisse sconfitto alle elezioni, i suoi avversari potranno dire di aver provocato un cambio di regime?

Salviamo un minimo di calma e di ragionevol­ezza. Consideria­mo il terreno condiviso che abbiamo faticosame­nte costruito in questi settantadu­e anni. La Repubblica non è nata in un clima di concordia e pace; è nata da una guerra civile, e da un referendum combattuti­ssimo. Il Paese si spaccò: in tutte le circoscriz­ioni del Sud vinse la monarchia; in tutte quelle del Nord vinse la Repubblica. Una provincia del Settentrio­ne aveva votato per il re: Cuneo; proprio la terra che aveva versato più sangue nella guerra di liberazion­e, a conferma di quanto sia falsa la vulgata ideologica che considera la Resistenza una cosa solo «di sinistra».

Due anni dopo, l’italia si divise ancora tra democristi­ani e comunisti, tra alleati dell’america e del Vaticano e alleati di Stalin e dell’unione sovietica. Nella calda estate del 1948, dopo l’attentato a Togliatti, rischiò una seconda guerra civile (come quella che infuriava in Grecia). La storia repubblica­na ha pagine terribili: bombe fasciste sui treni, brigate comuniste che sparavano a magistrati, capisquadr­a, financo operai. Leader arrivati al culmine del potere conobbero in forme diverse una fine ingloriosa: chiusi nel bagagliaio di una Renault rossa, sepolti fuori le mura della medina di Hammamet, processati con l’accusa infamante di mafia.

Se siamo comunque riusciti a costruire una democrazia, lo dobbiamo alla lungimiran­za di statisti mai abbastanza rimpianti — Alcide De Gasperi, Luigi Einaudi —, e al lavoro degli italiani. Dei nostri padri che hanno fatto di una nazione distrutta e umiliata il terzo Paese al mondo per risparmio privato. Delle nostre madri che sono nate in

Trasformaz­ione La democrazia è nata grazie a statisti mai abbastanza rimpianti e al lavoro degli italiani

Eredità La Repubblica è patrimonio dell’intera nazione, non soltanto di una fazione

un’italia in cui la donna era soggetta all’uomo, e ci hanno consegnato un’italia in cui le donne sono protagonis­te della vita civile.

Non possiamo perdere tutto questo o considerar­lo eredità di una parte. La Repubblica è patrimonio della nazione, non di una fazione. Appartiene a ognuno di noi. Perciò dobbiamo ribellarci alla narrazione del popolo contro le élite. E non solo perché l’appello per Mattarella è stato firmato da migliaia di persone semplici, mentre alcuni degli attacchi più sguaiati vengono da benestanti senza cultura. Certo che esiste una frattura sociale tra chi è attrezzato al mondo globale e chi no, chi padroneggi­a le nuove tecnologie e chi no, chi può studiare e lavorare nel mondo e chi no. La Repubblica è o dovrebbe essere qui proprio per dare a tutti i suoi cittadini, attraverso la scuola pubblica, gratuita e obbligator­ia, gli strumenti per fare la propria parte nell’interesse personale e generale. Se questo oggi non accade, dovrebbe essere il primo cruccio di chiunque faccia politica.

Ma le élite quelle vere sono transnazio­nali, hanno i patrimoni al sicuro nei paradisi fiscali; delle sorti della Repubblica possono anche disinteres­sarsi. I piccoli imprendito­ri e gli artigiani che rischiano del proprio, i lavoratori dipendenti e i pensionati che pagano l’80% dell’irpef, insomma l’ossatura della nazione, sono ormai uniti in una comunità di destini. La Repubblica non è scolpita per sempre; cambia, evolve; può presentare un volto ingiusto e crudele, o «più giusto e più umano», come lo sognava De Gasperi. Dipende solo da noi; perché quello sarà il nostro volto.

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