Corriere della Sera

TRE DOSSIER PER CAPIRE LA ROTTA

Economia e lavoro Gli appuntamen­ti dei prossimi giorni saranno decisivi per definire il futuro di Ilva e Alitalia e il cambiament­o al vertice della Cassa depositi e prestiti

- di Ferruccio de Bortoli

Iprogrammi elettorali si scrivono in assenza di gravità. L’azione di governo invece è appesantit­a da scelte obbligate, leggi vigenti, vincoli internazio­nali, impegni contrattua­li. Il giurista Conte immaginiam­o ne sia consapevol­e. Altri nel governo, specie tra le matricole, non sappiamo. E poi c’è la realtà dei numeri, peraltro scarsi nel pomposo «contratto». Fra qualche giorno qualcuno di loro dirà: «Non pensavamo di trovare una situazione così difficile...». E qualche scelta programmat­ica verrà sospesa o accantonat­a, forse anche saggiament­e. L’impatto con la nuda terra dell’amministra­zione quotidiana non è stato mai semplice per nessun esecutivo. Anche nella continuità politica. Figuriamoc­i per il neonato governo giallo verde o giallo blu, non si sa. Se l’esecutivo guidato(?) da Conte non si doterà di collaborat­ori esperti nel funzioname­nto della macchina dello Stato la navigazion­e sarà subito incerta. Uno non vale uno. L’onesto incompeten­te può fare grandi danni. Pietro Nenni disse che una volta entrati nella stanza dei bottoni, il luogo del potere, i socialisti non trovarono i bottoni. In questo caso, qualcuno rischia, senza validi esperti, di non trovare nemmeno la stanza.

Lasciamo per un attimo da parte il drammatico tema dell’incompatib­ilità economica del «contratto» con gli equilibri di finanza pubblica e con gli impegni legati all’appartenen­za all’unione monetaria. I mercati restano in agguato. Domani ne capiremo l’umore.

Occupiamoc­i invece di tre dossier che il governo Conte dovrà affrontare nelle prossime settimane. Tre appuntamen­ti dai quali si capiranno il tono e la rotta di un’intera stagione amministra­tiva. Il neo superminis­tro dello Sviluppo e del Lavoro, Luigi Di Maio, ha giustament­e annunciato che il suo primo solenne impegno sarà quello di rilanciare l’occupazion­e al Sud. Come si concilia questo sacrosanto proposito con l’intenzione programmat­ica di chiudere e riconverti­re l’ilva di Taranto peraltro gradita dal governator­e della Puglia, il pd Michele Emiliano? È il più grande stabilimen­to del Mezzogiorn­o, impiega direttamen­te e indirettam­ente 20 mila persone. La produzione vale un punto di Prodotto interno lordo. Il primo luglio Arcelor Mittal, che ha vinto una gara internazio­nale, entrerà in azienda. Anche in assenza di un accordo sindacale. Il gruppo siderurgic­o spenderà 1,8 miliardi per l’acquisto, promette 2,3 miliardi di investimen­ti di cui 1,1 per il risanament­o ambientale. Si può ancora trattare. Ma che facciamo? Mandiamo all’aria tutto? L’azienda perde 30 milioni al giorno. Ha cassa ancora per un mese. La riconversi­one avrebbe costi faraonici ed esiti largamente incerti. Si decarboniz­za da un lato e dall’altro, come ha dichiarato la neoministr­a del Sud, Barbara Lezzi, si blocca il gasdotto Tap (Trans Adriatic Pipeline)? Appare suicida poi chiudere l’ilva di fronte ai dazi americani. I produttori colpiti negli Usa cercherann­o spazi di mercato maggiori in Europa. L’ilva vende solo in Europa. Senza guardare all’ammontare delle penali, chi volete che venga più a investire — e non solo in Puglia — davanti a giravolte di questo tipo? Quando Riva, l’ex proprietar­io dell’ilva, annunciò, nel settembre del 2013, la chiusura di alcuni stabilimen­ti lombardi, Matteo Salvini, allora vice di Roberto Maroni, protestò duramente in difesa di 1.400 posti di lavoro. «Siamo pronti a tutto — scrisse su Facebook — da Varese alla Val Camonica passando per Brescia, se ci sarà da rischiare e fare casino, faremo casino». E parlando a Novi Ligure il 9 febbraio di quest’anno: «Marchiamo a uomo affinché il piano industrial­e Dilemma a Taranto Difficile chiudere e riconverti­re l’industria pugliese che dà lavoro a 20 mila persone

dell’ilva sia portato avanti, sperando che in Puglia si mettano d’accordo. Le promesse messe per iscritto vanno mantenute e qualcuno deve impegnare l’azienda a mantenerle». Giovanni Tria ha espresso il 14 maggio su Formiche.net tutte le sue riserve sulle scelte del nascente, prima versione, governo pentaleghi­sta. «Più preoccupan­te il fatto — scriveva il futuro ministro dell’economia — che non sia chiaro l’indirizzo di politica industrial­e, vedi l’imbarazzan­te caso Ilva».

Sono giorni decisivi anche per il futuro dell’alitalia. Nel «contratto» si legge che va «rilanciata nell’ambito di un piano nazionale dei trasporti che non può prescinder­e dalla presenza di un vettore nazio- nale competitiv­o». Tra le offerte pervenute ai commissari, solo per pezzi di azienda, la migliore sembra quella di Lufthansa. Ma comportere­bbe un sacrificio occupazion­ale, diretto e indiretto, tra 2 e 4 mila posti. Oggi ci sono già 1.500 lavoratori in cassa integrazio­ne. Il governo uscente ha prestato all’azienda finora 900 milioni. È aperta una procedura europea sul sospetto di aiuti di Stato. Un rilancio, con un soggetto italiano privato e pubblico è possibile, ma occorre sia fatto a condizioni di mercato e con forti investimen­ti. Anche nazionaliz­zando in ipotesi i tagli occupazion­ali vanno fatti. Erano insufficie­nti i capitali messi a disposizio­ne dai cosiddetti capitani coraggiosi e, successiva­mente, Compagnia di bandiera Per il rilancio occorre muoversi sul mercato e programmar­e forti investimen­ti

dagli arabi di Etihad. Ed è finita male. Chi li mette i soldi necessari per creare un «vettore nazionale competitiv­o»? Stiamo parlando almeno di un paio di miliardi, anche perché va restituito il prestito pubblico. Alitalia è finora costata ai contribuen­ti una cifra che oscilla tra gli 8 e i 9 miliardi.

Terzo dossier delicato è quello della Cassa depositi e prestiti (Cdp). Gestisce il risparmio postale. Ha un attivo di 370 miliardi di cui 150 versati nel conto di tesoreria. È il polmone finanziari­o della Repubblica. Ha partecipaz­ioni azionarie per 35 miliardi. È appena entrata in Tim. L’assemblea per il rinnovo dei vertici — l’attuale presidente Claudio Costamagna e l’amministra­tore delegato Fabio Gallia sono in uscita — è fissata in seconda convocazio­ne il 28 giugno. Entro il 16 gli azionisti, ovvero il ministero dell’economia e delle Finanze e le Fondazioni bancarie, dovranno depositare le liste con i nuovi amministra­tori. Tra i candidati si è parlato finora di Massimo Tononi alla presidenza e di Dario Scannapiec­o come ad. C’è anche l’ipotesi di Franco Bernabé. Sono tutti ottimi nomi. Quali scelte farà il nuovo governo? Nel «contratto», la Cdp non è citata. Si parla però della creazione di una banca per gli investimen­ti e lo sviluppo. Davide Casaleggio ha fatto più volte l’esempio della francese Bpifrance partecipat­a da Caisse des Dépôts. Il rispetto dei criteri di competenza degli amministra­tori e di governance sarebbe già un ottimo inizio. Un diverso indirizzo strategico, come quello che traspare dal «contratto», potrebbe scontrarsi con i vincoli non solo statutari ma anche con quelli fissati dalle regole europee. Cdp non è una banca. Se lo fosse dovrebbe essere sottoposta alla vigilanza prudenzial­e di Francofort­e. Agisce già come una sorta di fondo sovrano italiano, finanzia infrastrut­ture e innovazion­e. Può fare di più e meglio. Ma se si rispettass­ero i vincoli, l’italia rischiereb­be ancora una volta una procedura europea con effetti sul perimetro delle attività statali e sul calcolo del debito pubblico. Il governo e il Parlamento hanno tutto il diritto di cambiare struttura e missione della Cdp — come di Invitalia, che ha appena acquisito la Banca del Mezzogiorn­o — ma il cammino è irto di ostacoli che vanno attentamen­te soppesati. Il cambiament­o è necessario ma tutt’altro che facile. E soprattutt­o ha sempre costi nascosti e imprevisti.

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