La mano tesa di Macron
Emmanuel Macron aveva espresso rispetto e sostegno a Giuseppe Conte dopo il primo tentativo poi fallito di formare un governo «pentaleghista».
L’atteggiamento non cambia ora che il governo nasce in una cornice più rassicurante per i mercati e con ministri che — ufficialmente — non predicano strappi con Bruxelles. È una posizione in controtendenza con media francesi che riflettono giudizi sommari sul «primo governo populista dell’europa occidentale» (Les Echos) e preoccupazione per il peso politico della Lega Nord, accostata alle posizioni xenofobe e antieuropee del Front National. La mano tesa non è soltanto un gesto di simpatia verso un Paese che Macron ama sinceramente. È la pragmatica consapevolezza di come vanno le cose in Europa e nella sua Francia.
Nell’europa del dopo Brexit, in cui si affermano i populismi e si accumulano fattori d’instabilità e involuzione — crisi catalana e caduta del governo in Spagna, chiusure nazionalistiche nei Paesi dell’ Est, rigorismo finanziario nelle capitali del Nord, incertezze tedesche — Macron rilancia un grande disegno europeista. E sostiene riforme liberali nella Francia in cui risorgono vizi corporativi che bloccano il Paese con bordate di scioperi e proteste.
Il presidente corre dunque il rischio di non trovare alleati, mentre il rapporto con la Germania non è più sufficiente a fare avanzare l’europa e rimane incagliato sulle riforme di governance finanziaria che Parigi propone e che Berlino congela.
Macron ha necessità di una
sponda, di mantenere solidi rapporti bilaterali con Roma. Peraltro, anche la Francia ha bisogno di contenere l’europa a trazione tedesca e anche la Francia è confrontata a drammatiche urgenze di riduzione della spesa pubblica e rientro nei parametri di bilancio, per anni sistematicamente sforati (Senza che nessuno, a Bruxelles o a Berlino, alzasse la voce o chiedesse alla Francia delle «35 ore» di lavorare di più).
Certo, Macron avrebbe preferito un altro esito. Basti ricordare la cordialità negli incontri con Renzi e Gentiloni, con l’occhio alle elezioni europee e alla «collocazione» del suo movimento, En Marche, al Parlamento di Strasburgo. Ma Macron è un pragmatico. Il primo capo di Stato che ha invitato a Parigi dopo la sua elezione è stato Donald Trump. I canali di dialogo sono stati aperti con Cinque Stelle: l’esigenza
di un’europa più vicina ai cittadini è condivisa. D’altra parte, Conte, come i precedessori, non dovrebbe farsi illusioni sul senso che i francesi danno all’amicizia. I dossier Libia e Fincantieri insegnano. E non è difficile immaginare le reazioni in caso di ridiscussione della Tav.
Non possono sfuggire infine analogie con la situazione italiana. Anche En Marche si è affermato attraverso la Rete, è stato portato in alto da masse di cittadini, soprattutto giovani, delusi dalla politica, ha trionfato sulla catastrofe dei partiti di governo tradizionali, il centro destra gaullista e il Partito socialista. Anche il personale politico di En Marche paga il prezzo dell’improvvisazione e dell’inesperienza. Anche En Marche ha travolto barriere ideologiche fra destra e sinistra. La differenza, fondamentale, la fanno le istituzioni, il sistema elettorale, il peso dell’eliseo che influenza dal vertice della piramide ogni ambito della vita politica e civile dei francesi.
Una differenza che ha per il momento messo nel congelatore (cioè fino alle prossime elezioni) la più complicata e più pericolosa dimensione del populismo francese. Marine Le Pen, più xenofoba e antieuropea di Salvini, ha raccolto milioni di voti ed è arrivata al ballottaggio per l’eliseo. Fino alla vittoria di Macron, l’estrema destra era il primo partito di Francia. Sul fronte opposto dell’estrema sinistra, radicale e nazionalista, Jean Luc Melenchon ha raccolto a man basse la rabbia dei giovani, dei ceti popolari, degli agricoltori.
È evidente che questi due populismi non potrebbero allearsi: con lo sguardo preoccupato a Roma, mai dire mai.