Fragile tregua con Pechino (dove Ivanka fa molti affari)
C’è la guerra o la tregua commerciale tra Stati Uniti e Cina? A inizio maggio gli americani hanno messo sul tavolo la richiesta di ridurre il surplus dell’export cinese di 200 miliardi di dollari in due anni. Due settimane dopo, ultimatum congelato. Ora il terzo round: a Pechino è arrivato il segretario al Tesoro Wilbur Ross. Non si riesce a capire che cosa stia succedendo tra le due superpotenze. L’ultima mossa di Donald Trump: la minaccia di dazi su 50 miliardi di dollari di merci cinesi per punire la violazione della proprietà intellettuale da parte di Pechino. In questa fase Trump non sembra potersi impegnare in uno scontro frontale con Xi Jinping: gli serve il suo appoggio nel dossier nordcoreano. «Xi è un giocatore di poker di classe mondiale», ha ammesso il presidente, che si è intenerito per il destino dei 70 mila dipendenti del colosso cinese Zte delle telecomunicazioni, impegnandosi a salvarli dalle sanzioni per il violato embargo nei confronti di Iran e Nord Corea.
Nello stesso tempo Ivanka Trump ha ottenuto in un colpo solo la registrazione di 13 marchi con il suo nome a Pechino. La tregua però è instabile. C’è la militarizzazione delle isole nel Mar cinese meridionale, che il Pentagono vuole contrastare «con vigore». E la questione di Taiwan, dove il 12 giugno gli Usa inaugureranno il nuovo American Institute da 250 milioni di dollari: un surrogato di ambasciata, nonostante la politica «Una sola Cina» (Washington ha pieni rapporti diplomatici con Pechino e finge di non averne con Taipei). Difficile mantenere una sola linea ispirata dall’interesse economico. La prova? Washington ha appena fatto scattare dazi, che però puniscono gli alleati europei e occidentali più dell’avversario cinese. Basta guardare i numeri dell’import Usa in acciaio e alluminio nel 2017: Canada 12,4 miliardi di dollari; Unione Europea 7,7 miliardi; Messico 2,9; Cina: 2,9.