Corriere della Sera

Per attirare i turisti l’uganda fa un museo al tiranno Idi Amin

Il governo: oltre ai gorilla mostriamo la nostra storia

- di Michele Farina

«La storia è come il vino rosso, con il tempo diventa più interessan­te». Questo capo dell’ufficio del turismo, Stephen Asiimwe, è un tipo bizzarro. «In Uganda abbiamo i gorilla di montagna — dice —, ma anche il nostro passato è da mostrare». Un conto però è dare testimonia­nza delle atrocità commesse da un dittatore, un altro è costruire un museo intorno alla sua memoria. È quanto Asiimwe ha annunciato con orgoglio alla Bbc: «Costruirem­o il museo Idi Amin, per attirare i turisti». E parla proprio di quell’idi Amin Dada, l’ex sergente che tiranneggi­ò il Paese dal 1971 al 1979, con mano brutale e spirito di buffone. Responsabi­le della morte di 400 mila persone, il generale cannibale fu rimosso dai ribelli di Yoweri Museveni, l’attuale presidente. Fuggì in Arabia Saudita, a Gedda, dove morì e fu sepolto nel 2003. Prima della fine chiese invano di poter vivere gli ultimi giorni in patria.

Quindici anni dopo, è il governo di Kampala che forse si prepara a riportare i suoi resti in Uganda. Finora, la «storicizza­zione» se non la riabilitaz­ione di Amin è stata appannaggi­o di qualche politico, quando la campagna elettorale passa nel nordovest dalle parti di Koboko. Nella città natale del dittatore, al confine con Sud Sudan e Repubblica Democratic­a del Congo, il Corriere ha ascoltato storie di persone tornate a casa dopo decenni, appartenen­ti a quella generazion­e di ugandesi di etnia kakwa che fuggirono alla caduta di Amin per evitare le vendette dei gruppi etnici che Amin aveva perseguita­to.

Se il museo vuole essere un segno di riconcilia­zione, Asiimwe non è convincent­e. «Quando ero ragazzo, molti dei miei compagni di scuola hanno perso i genitori a causa del regime. Però non si può sfuggire alla storia». Se questa è la storia, il museo non dovrebbe essere intitolato ad Amin. E non dovrebbe essere mister turismo a parlarne per il governo. Asiimwe già 4 anni fa lamentava il mancato sfruttamen­to del nome del dittatore: «Amin è l’ugandese più famoso, eppure non ci guadagniam­o un soldo».

Un discorso che non dispiacere­bbe a «Big Daddy», come si faceva chiamare (con dozzine di figli e cinque mogli ufficiali) il «sovrano» Idi Amin (si autoprocla­mò re di Scozia) che cacciò dall’uganda la minoranza indiana, proibì le minigonne (cosa che per altro ha fatto anche l’attuale presidente). Un buffone feroce: «Con me la libertà di espression­e è garantita, ciò che non garantisco è la libertà dopo che ci si è espressi». A Kampala nel giardino di Mengo Palace c’è un gigantesco sotterrane­o di cemento che Amin trasformò in luogo di tortura. I visitatori possono leggere le scritte dei prigionier­i: «Sto morendo, che cosa accadrà ai miei figli?». Accadrà di vivere in un Paese che dedica un museo a chi gli ha rubato il padre.

Un nome da sfruttare «È il connaziona­le più famoso, ma non abbiamo mai sfruttato il suo nome»

 ??  ?? Libertà Idi Amin Dada nel 1975. Il suo motto: «Con me la libertà di espression­e è garantita, non la garantisco dopo che ci si è espressi»
Libertà Idi Amin Dada nel 1975. Il suo motto: «Con me la libertà di espression­e è garantita, non la garantisco dopo che ci si è espressi»

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