Per attirare i turisti l’uganda fa un museo al tiranno Idi Amin
Il governo: oltre ai gorilla mostriamo la nostra storia
«La storia è come il vino rosso, con il tempo diventa più interessante». Questo capo dell’ufficio del turismo, Stephen Asiimwe, è un tipo bizzarro. «In Uganda abbiamo i gorilla di montagna — dice —, ma anche il nostro passato è da mostrare». Un conto però è dare testimonianza delle atrocità commesse da un dittatore, un altro è costruire un museo intorno alla sua memoria. È quanto Asiimwe ha annunciato con orgoglio alla Bbc: «Costruiremo il museo Idi Amin, per attirare i turisti». E parla proprio di quell’idi Amin Dada, l’ex sergente che tiranneggiò il Paese dal 1971 al 1979, con mano brutale e spirito di buffone. Responsabile della morte di 400 mila persone, il generale cannibale fu rimosso dai ribelli di Yoweri Museveni, l’attuale presidente. Fuggì in Arabia Saudita, a Gedda, dove morì e fu sepolto nel 2003. Prima della fine chiese invano di poter vivere gli ultimi giorni in patria.
Quindici anni dopo, è il governo di Kampala che forse si prepara a riportare i suoi resti in Uganda. Finora, la «storicizzazione» se non la riabilitazione di Amin è stata appannaggio di qualche politico, quando la campagna elettorale passa nel nordovest dalle parti di Koboko. Nella città natale del dittatore, al confine con Sud Sudan e Repubblica Democratica del Congo, il Corriere ha ascoltato storie di persone tornate a casa dopo decenni, appartenenti a quella generazione di ugandesi di etnia kakwa che fuggirono alla caduta di Amin per evitare le vendette dei gruppi etnici che Amin aveva perseguitato.
Se il museo vuole essere un segno di riconciliazione, Asiimwe non è convincente. «Quando ero ragazzo, molti dei miei compagni di scuola hanno perso i genitori a causa del regime. Però non si può sfuggire alla storia». Se questa è la storia, il museo non dovrebbe essere intitolato ad Amin. E non dovrebbe essere mister turismo a parlarne per il governo. Asiimwe già 4 anni fa lamentava il mancato sfruttamento del nome del dittatore: «Amin è l’ugandese più famoso, eppure non ci guadagniamo un soldo».
Un discorso che non dispiacerebbe a «Big Daddy», come si faceva chiamare (con dozzine di figli e cinque mogli ufficiali) il «sovrano» Idi Amin (si autoproclamò re di Scozia) che cacciò dall’uganda la minoranza indiana, proibì le minigonne (cosa che per altro ha fatto anche l’attuale presidente). Un buffone feroce: «Con me la libertà di espressione è garantita, ciò che non garantisco è la libertà dopo che ci si è espressi». A Kampala nel giardino di Mengo Palace c’è un gigantesco sotterraneo di cemento che Amin trasformò in luogo di tortura. I visitatori possono leggere le scritte dei prigionieri: «Sto morendo, che cosa accadrà ai miei figli?». Accadrà di vivere in un Paese che dedica un museo a chi gli ha rubato il padre.
Un nome da sfruttare «È il connazionale più famoso, ma non abbiamo mai sfruttato il suo nome»