Corriere della Sera

Rap e buoni sentimenti (con le dediche ai papà)

Peligro, Jesto, Kuti: via gli inni alla trasgressi­one dai testi «I ragazzi ti prendono in parola, ci vuole responsabi­lità»

- Stefano Landi

Avent’anni, o giù di lì, esprimere i propri sentimenti è complicato in generale. È una questione di spocchia anagrafica. L’obbligo di mostrarsi duri senza ogni deriva di tenerezza. Figuriamoc­i se di mestiere fai il rapper e a furia di mettere in rima spacconeri­e fai fatica a distinguer­e l’immagine reale rispetto a quella che si ostenta in copertina. Qualcuno sta risalendo un’altra corrente. Peligro, Jesto, Tommy Kuti: in comune hanno un nuovo disco che si nutre di buoni sentimenti.

Peligro, milanese, classe rappistica 1992, ha da poco pubblicato «Mietta sono io». «Ho superato la rabbia adolescenz­iale delle prime canzoni. Mentre scrivevo, sono entrato in contatto con dei lati di me che avevo sempre ignorato. Crescendo l’introspezi­one diventa A sinistra Tommy Kuti, 28 anni, il rapper italiano di origini nigeriane; a destra il rapper Jesto (33 anni), figlio del cantautore Stefano Rosso Gli album

● È uscito da pochi giorni il nuovo album di Peligro dal titolo «Mietta sono io»

● Il rapper romano Jesto ha pubblicato di recente il nuovo disco «Buongiorno Italia» dedicato al padre Stefano Rosso

● «Italiano Vero» è il l’ultimo album di Tommy Kuti un passaggio naturale. La realtà è che non riesco a cantare quello che non vivo. Ci vuole onestà. In questo senso, un buon maestro per me è stato Ghemon, che sa usare il rap per raccontare anche e soprattutt­o se stesso», spiega. C’è una canzone in particolar­e, «Affini», dedicata al suo rapporto con papà: «È nata il giorno che guardandol­o negli occhi ho vissuto lo shock di riconoscer­e una persona normale e non il supereroe Mietta All’anagrafe Andrea Mietta, Peligro (a destra) è un rapper milanese classe 1992. Peligro ha iniziato a fare musica all’età di 14 anni ed ha pubblicato il suo primo album, «Scontento», nel 2011 che mi proteggeva quando ero piccolo». Nel disco Peligro cita altre figure familiari, più in generale quelle che gli sono state vicino nella parte iniziale del viaggio della sua vita. Ci vuole un certo coraggio, dato che i colleghi intorno cantano la bellissima vita tutta droga, sesso e trasgressi­one. «Non vivo quella vita, inutile mentire». I rapper oggi, soprattutt­o i nuovi discepoli della moda trap, hanno un pubblico giovanissi­mo. Che non è una colpa. «Anzi implica una grossa responsabi­lità, io me la sento addosso in pieno. Ti prendono in parola. Io voglio essere un buon esempio», dice.

Anche Jesto ha dedicato il suo nuovo disco «Buongiorno Italia», uscito l’11 maggio, a papà. Che poi sarebbe Stefano Rosso, cantautore e menestrell­o romano, quello di «Che bello... due amici, una chitarra e uno spinello». È un concept album inteso come un invito al Paese a svegliarsi, ma è dedicato alla figura del padre, scomparso dieci anni fa. «Ho fuso le sue radici con il mio background di rapper, unendo i due diversi approcci musicali e culturali, in un momento in cui la musica, ma non solo, è svuotata di contenuti. C’è una crasi perfetta, tra quello che farebbe mio padre oggi se avesse la mia età e il Jesto che è arrivato fin qui». Il taglio con le produzioni precedenti però è netto. «Sono passato dal disco precedente, che era super personale, incentrato sull’io e sull’autorefere­nzialità, al Noi. Ho tolto l’autocelebr­azione, l’ego».

E poi c’è Tommy Kuti, il rapper afroitalia­no dall’accento bresciano, che nel suo album «Italiano vero» mette allo specchio la sua storia di italiano di seconda generazion­e. E canta: «Faccio rap senza parlare di spaccio, suona fresh ma ogni pezzo ha il suo messaggio». Kuti non sta lì a scimmiotta­re gli altri artisti che cantano a chi fa più soldi, a chi ha più gossip o fa più tendenza. «Perché sono il figlio di una famiglia di immigrati umili, senza agganci, sono cresciuto in mezzo alle provincie padane tra i razzisti e gli ignoranti, dove i giovani hanno scarsissim­e possibilit­à di realizzazi­one e la massima ambizione è quella di avere un mediocre posto fisso».

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