Che cos’ è esattamente il coma?
Una condizione in cui sono assenti stato di veglia e consapevolezza
Quando si parla di coma c’è una grande confusione. Capita infatti che questo termine venga usato in modo improprio. Basta pensare a quante volte si sente parlare di pazienti usciti dal coma dopo anni.
«Qui sta il primo equivoco», fa notare Nicola Latronico, professore di anestesia e rianimazione all’università di Brescia: «Il coma è sempre di breve durata: settimane, non anni. Per capire in che cosa consista questa condizione è utile partire dalla definizione clinica di coscienza, uno stato di piena consapevolezza di sé stessi e della propria relazione con l’ambiente circostante. Una persona è cosciente quando è vigile (apre gli occhi) e interagisce con l’ambiente (contenuto della coscienza, rappresentato dalla somma delle funzioni cognitive e affettive). Il coma è l’assenza di coscienza. Nel paziente in coma sono assenti le componenti della coscienza: stato di veglia e consapevolezza (contenuto)».
Come si fa la diagnosi di coma?
«La valutazione è clinica. La diagnosi è basata sul fatto che il paziente, dopo un evento acuto (per esempio un incidente stradale con trauma cranico), non apre gli occhi, non emette suoni comprensibili e non esegue ordini anche se stimolato intensamente.
Il coma non dura mai più di 6-8 settimane. Il paziente è in una situazione critica: può morire nell’arco di poco tempo oppure uscirne. Tra lo stato di coma e il recupero completo delle proprie funzioni, però, ci sono diverse “stazioni” da cui può passare e a volte rimanere “imprigionato”. Mi riferisco allo stato vegetativo e a quello di minima coscienza».
Che cosa si intende per stato vegetativo?
«Una persona in questo stato apre gli occhi, è in grado di muoverli, ma è incapace di seguire oggetti. Il contenuto della coscienza è assente: il paziente non ha consapevolezza di sé e non interagisce con l’esterno. Anche in questo caso la valutazione è solo clinica, con i limiti che questo comporta. Metodiche moderne di neuroimaging funzionale (come la risonanza magnetica) o neurofisiologiche (come l’elettroencefalogramma) non sono ancora parte della routine diagnostica. Secondo uno studio pubblicato qualche anno fa sul British Medical Journal, fino al 40% delle persone a cui è stata fatta una diagnosi clinica di stato vegetativo ha in realtà contenuti di coscienza. Questo per dire che non bisogna dimenticare che la coscienza può essere inaccessibile all’osservazione esterna e quindi non dimostrabile. Quando lo stato vegetativo dura per più di 3-6 mesi dopo un arresto cardiaco o per oltre un anno dopo un trauma cranico, è molto improbabile che si possa avere un pieno recupero della coscienza e dell’autonomia funzionale e si usa il termine stato vegetativo permanente a indicare la prognosi negativa».
In che cosa consiste invece lo stato di minima coscienza?
«È una condizione che può seguire il coma o lo stato vegetativo, in cui è evidente che il paziente ha una seppur minima consapevolezza di sé o dell’ambiente. Per esempio dà delle risposte sì/no verbali o gestuali, mostra comportamenti affettivi oppure esegue movimenti complessi di esplorazione del proprio corpo o dell’ambiente. Per capire se una persona è in uno stato di minima coscienza può servire una lunga osservazione e può succedere che siano i parenti che accudiscono il malato, a casa o in ospedale, a rendersi conto per primi di reazioni o di comportamenti volontari».