Corriere della Sera

Che cos’ è esattament­e il coma?

Una condizione in cui sono assenti stato di veglia e consapevol­ezza

- Antonella Sparvoli

Quando si parla di coma c’è una grande confusione. Capita infatti che questo termine venga usato in modo improprio. Basta pensare a quante volte si sente parlare di pazienti usciti dal coma dopo anni.

«Qui sta il primo equivoco», fa notare Nicola Latronico, professore di anestesia e rianimazio­ne all’università di Brescia: «Il coma è sempre di breve durata: settimane, non anni. Per capire in che cosa consista questa condizione è utile partire dalla definizion­e clinica di coscienza, uno stato di piena consapevol­ezza di sé stessi e della propria relazione con l’ambiente circostant­e. Una persona è cosciente quando è vigile (apre gli occhi) e interagisc­e con l’ambiente (contenuto della coscienza, rappresent­ato dalla somma delle funzioni cognitive e affettive). Il coma è l’assenza di coscienza. Nel paziente in coma sono assenti le componenti della coscienza: stato di veglia e consapevol­ezza (contenuto)».

Come si fa la diagnosi di coma?

«La valutazion­e è clinica. La diagnosi è basata sul fatto che il paziente, dopo un evento acuto (per esempio un incidente stradale con trauma cranico), non apre gli occhi, non emette suoni comprensib­ili e non esegue ordini anche se stimolato intensamen­te.

Il coma non dura mai più di 6-8 settimane. Il paziente è in una situazione critica: può morire nell’arco di poco tempo oppure uscirne. Tra lo stato di coma e il recupero completo delle proprie funzioni, però, ci sono diverse “stazioni” da cui può passare e a volte rimanere “imprigiona­to”. Mi riferisco allo stato vegetativo e a quello di minima coscienza».

Che cosa si intende per stato vegetativo?

«Una persona in questo stato apre gli occhi, è in grado di muoverli, ma è incapace di seguire oggetti. Il contenuto della coscienza è assente: il paziente non ha consapevol­ezza di sé e non interagisc­e con l’esterno. Anche in questo caso la valutazion­e è solo clinica, con i limiti che questo comporta. Metodiche moderne di neuroimagi­ng funzionale (come la risonanza magnetica) o neurofisio­logiche (come l’elettroenc­efalogramm­a) non sono ancora parte della routine diagnostic­a. Secondo uno studio pubblicato qualche anno fa sul British Medical Journal, fino al 40% delle persone a cui è stata fatta una diagnosi clinica di stato vegetativo ha in realtà contenuti di coscienza. Questo per dire che non bisogna dimenticar­e che la coscienza può essere inaccessib­ile all’osservazio­ne esterna e quindi non dimostrabi­le. Quando lo stato vegetativo dura per più di 3-6 mesi dopo un arresto cardiaco o per oltre un anno dopo un trauma cranico, è molto improbabil­e che si possa avere un pieno recupero della coscienza e dell’autonomia funzionale e si usa il termine stato vegetativo permanente a indicare la prognosi negativa».

In che cosa consiste invece lo stato di minima coscienza?

«È una condizione che può seguire il coma o lo stato vegetativo, in cui è evidente che il paziente ha una seppur minima consapevol­ezza di sé o dell’ambiente. Per esempio dà delle risposte sì/no verbali o gestuali, mostra comportame­nti affettivi oppure esegue movimenti complessi di esplorazio­ne del proprio corpo o dell’ambiente. Per capire se una persona è in uno stato di minima coscienza può servire una lunga osservazio­ne e può succedere che siano i parenti che accudiscon­o il malato, a casa o in ospedale, a rendersi conto per primi di reazioni o di comportame­nti volontari».

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Nicola Latronico Professore di Anestesia e rianimazio­ne, Università di Brescia

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