La piazza, gli scioperi, la cacciata del premier Perché ora trema il regno di Giordania
Omar Razzaz, ministro dell’educazione: un tecnico con una solida preparazione internazionale. Basterà? Il rischio è che non basti. La disoccupazione ha raggiunto e superato il 18 per cento ( per i giovani è ben più del doppio). È chiaro che l’incubo tunisino è ben presente tra coloro che, dentro e fuori dal Paese, hanno a cuore la stabilità della Giordania. È ovvio che è nell’interesse di Israele e degli Stati Uniti, nonostante la discutibile politica di Donald Trump, fare il possibile per aiutare il Paese, da sempre alleato fedele dell’occidente. La Giordania — basta guardare la carta geografica per rendermene conto — è assediata da problemi. Confina con Israele, con l’iraq, con la Siria e con l’arabia Saudita. È costretta ad ospitare quasi un milione di profughi siriani e iracheni, pagando tutto ciò’ che gli aiuti internazionali non sono in grado di coprire. Ha dovuto subire — per il regno è uno schiaffo davvero inaccettabile — la decisione di Trump di spostare l’ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme.
Il regno hashemita è responsabile dei luoghi santi musulmani e cristiani della Città Santa. Non solo. Quasi il 70 per cento della popolazione giordana è di origine palestinese. È quindi facile comprendere come ogni sussulto, sull’altra riva del fiume Giordano, abbia gravi conseguenze sulla stabilità della monarchia. Ecco perché la fragilità del regno sta allarmando tutto il mondo. Negare un aiuto immediato vorrebbe dire consegnare l’intera regione, già martoriata, al caos. @ferrariant