All’attacco per i commerci
La strategia dell’imprevedibilità del presidente americano Donald Trump ha un obiettivo: attaccare gli alleati sul commercio.
Sempre più teatrale e convinto che la sua carta migliore non sia l’affidabilità del presidente della superpotenza garante degli equilibri mondiali, ma l’imprevedibilità del giocatore d’azzardo che non mette il ruolo geopolitico dell’america in cima alle sue priorità, Donald Trump ha devastato il G7 prima di partire da Washington e, di nuovo, al suo arrivo in Canada con annunci bellicosi a raffica: toni da resa dei conti contro gli alleati più stretti degli Stati Uniti (l’unione Europea e il Canada). La richiesta di riportare la Russia nel G8 dopo che erano stati proprio gli Usa i principali sostenitori di una sua sospensione in seguito all’annessione della Crimea: una richiesta concepita male e formulata senza nemmeno tentare di preparare il terreno con la conseguenza di irritare i partner europei mentre perfino Putin si è permesso di snobbarla con uno sprezzante «non ci interessa».
E, poi, l’annuncio che ripartirà prima della fine del vertice con l’evidente intenzione di provocarne il mezzo fallimento: niente conclusioni condivise, nè conferenze stampa finali. Sempre che il gusto di fare notizia anche con repentini cambiamenti di rotta non produca oggi altre sorprese (la foto di gruppo con sorrisi è stata già recuperata).
Frenato per un anno dai collaboratori che lo hanno affiancato nel suo primo periodo alla Casa Bianca — uomini di Realpolitik come Cohn, Tillerson e Mcmaster proveninenti dalla finanza, dalla grande industria e dal Pentagono — ora Trump ostenta un vero e proprio culto dell’imprevedibilità: il modo nel quale il più potente leader mondiale piega le esigenze della diplomazia e della cooperazione internazionale alla sua indole di mercante che negozia su tutto sorprende e destabilizza tanto i suoi interlocutori politici quanto gli analisti.
In realtà avremmo forse dovuto prevedere la sua imprevedibilità fin da quando, nell’aprile 2016, in piena campagna per le elezioni presidenziali, The Donald, nel suo primo discorso dedicato alla politica estera, sostenne che «come nazione dobbiamo essere totalmente imprevedibili. Non come oggi: siamo prevedibili su tutto».
A ben vedere, però, in tutta questa imprevedibilità, un filo conduttore c’è: nel dispiegare la sua politica estera, il presidente mercante non si fa forte del ruolo geopolitico dell’america e della sua potenza militare. Preferisce invece usare, come strumento di pressione, l’enorme forza d’urto dell’accesso al mercato interno americano, il più vasto e ricco del mondo.
Il bullismo digitale degli scambi di tweet nel quale Trump, Macron e Trudeau si accusano reciprocamente di non stare ai patti e di comportamenti sleali sul piano commerciale non nasce da sortite impulsive del presidente Usa: la Casa Bianca ha ormai lanciato una campagna che ha il sapore di una sorta di «tolleranza zero» nei confronti dei partner commerciali accusati, pressoché in blocco, di «giocare sporco».
Il suo consigliere commerciale, Peter Navarro, l’ha spiegato con grande chiarezza in un articolo pubblicato ieri dal New York Times: l’america, che ogni anno accumula circa 500 miliardi di dollari di deficit commerciale con l’estero, non è disposta ad accettare più questa situazione. È, quindi, resa dei conti con la Germania che ha un attivo dei conti con gli Stati Uniti di 64 miliardi anche perché, dice Navarro, le auto Usa vendute in Europa sono gravate da un dazio del 10 per cento, mentre quelle tedesche che arrivano in America pagano solo il 2,5 per cento. Navarro è ancora più duro col Giappone («Mettono molte barriere, il rapporto di scambio di vetture è di cento a uno a nostro sfavore, mentre i giapponesi tassano al 32 per cento le nostre arance, al 50 la carne e al 58 il nostro vino»). Si becca un ceffone anche Trudeau, il padrone di casa del G7: «Il Canada ci vende legname in dumping».
La Casa Bianca prova a separare lo scontro commerciale dai problemi di solidarietà politica: «Chiediamo equità, non mettiamo in discussione la solidarietà atlantica».
Ma, a parte il fatto che le politiche commerciali seguite fin qui sono quelle di una cornice internazionale che è stata disegnata nel Dopoguerra proprio dagli Stati Uniti che hanno avuto i loro vantaggi (sovranità del dollaro, supremazia dell’industria militare Usa, sistema finanziario americanizzato), sconcerta la scelta di Trump di lanciare un attacco che colpisce soprattutto
Politica ed economia Trump ha lanciato una campagna contro i partner accusati di «giocare sporco»
suoi alleati mentre al momento risparmia (o tocca solo di striscio) la Cina che è di gran lunga il maggior esportatore verso gli Stati Uniti.
Quella con Pechino potrebbe essere solo una tregua, in attesa di vedere come Xi Jinping si comporterà nella partita col dittatore nordcoreano. Ma questo non fa altro che confermare la sensazione che Trump sia deciso a usare il rubinetto del mercato interno americano come arma di pressione sugli altri Paesi, senza fare troppe distinzioni tra alleati e avversari in omaggio a un nazionalismo che ha sostituito il multipolarismo: una formula osteggiata dai sovranisti anche in Europa. I quali, però, a differenza di Trump, si presentano disarmati al tavolo negoziale non disponendo di mercati interni lontanamente paragonabili a quello americano.