Italo Rota che lavorò con Gae Aulenti: «Ma oggi dobbiamo chiederci cosa salvare o lasciar andare»
«La Gare d’orsay? Mitterrand era inquieto, veniva in cantiere»
Guai a chiedergli, dopo così tanti decenni, il suo pensiero sul Musée d’orsay. Con garbo l’architetto Italo Rota replica: «Oramai ha sviluppato vita propria, e il mondo, nel frattempo, è anche così cambiato...». Accetta però di tornare, con i ricordi, a quella grande sfida progettuale, il Palazzo di Belle Arti nato dalla trasformazione di una stazione, che lui reputa essere «il primo vero progetto postmoderno».
Ricorda subito due particolari che probabilmente il grande pubblico ignora. La stazione era un caso speciale, essendo una Gare di superficie. «Il traffico ferroviario non è mai stato fermato: i treni viaggiavano, e continuano a farlo ancora oggi, al livello inferiore. Fu semplicemente bloccato l’accesso al piano sottoterraneo». Precisa, poi, che il team italiano, coordinato da Gae Aulenti, arrivò a lavori iniziati. Era stato fatto un nuovo concorso perché Giscard d’estaing non era soddisfatto del risultato. Cambiò il governo, arrivò François Mitterand. «Il nuovo presidente veniva di frequente in cantiere, inquieto, dubbioso, cercava rassicurazioni sull’effetto finale che faticava a mettere a fuoco».
La grande hall, il tetto di vetro, le sale laterali, lo storico orologio. «Un modello di ristutturazione che ha fatto scuola, che ha ispirato il recupero di tanti edifici industriali», dice. Riflette, esterna che anche con il passare degli anni «il progetto continua a colpire per la sua stravaganza». Torna ai ricordi, accenna al ruolo centrale destinato dall’inizio all’impressionismo, alle difficoltà dell’impostazione temporale («a lungo il problema fu se finire o meno con il Cubismo, però Picasso non doveva esserci: lo volevano Louvre e Beaubourg»), all’innovazione della sezione fotografica («una battaglia non vinta fino in fondo»).
E arriva ai giorni nostri. «Oggi il dibattito sulle trasformazioni è aperto e acceso, soprattutto nel caso dei grandi complessi industriali. Non si può più chiudere gli occhi sui costi, sempre più elevati, di gestione e mantenimento. Diventa allora una questione di buon senso, di giusto equilibrio, di opportunità: siamo obbligati a chiederci fino che punto bisogna salvare gli edifici per conservare la memoria o lasciarli andare».