L’onda lunga del 4 marzo
Sono state Amministrative sovrastate e oscurate dallo scontro tra Italia e Malta sulla «nave dei disperati» Aquarius. Ma l’onda lunga del 4 marzo non viene smentita. Le Amministrative di ieri sembrano confermare l’ascesa della Lega e il consolidamento del M5S. Il sospetto che sul risultato possa avere influito la linea dura sui migranti del ministro dell’interno, Matteo Salvini, è legittimo: tra l’altro ha invitato a votare Lega a urne aperte.
Ma questa lettura di quanto, secondo le prime, provvisorie proiezioni, è avvenuto nelle urne, rischia di velare il passaggio di fase iniziatosi con le Politiche. Si registra un calo della partecipazione, che potrebbe provocare qualche sorpresa alla fine dello spoglio. Ma il sistema si sta plasmando su due forze: quella di Salvini e l’altra di Luigi Di Maio anche sul piano locale. I consensi persi dal Pd perfino nelle roccaforti tradizionali, e il travaso di voti da Forza Italia al Carroccio nel centrodestra, sono una novità destinata a durare: nel breve periodo, almeno. I due fenomeni sono la conseguenza dello sgretolamento dei blocchi e dei valori sociali sui quali si fondavano la fedeltà elettorale ai Democratici. Nel calo di FI si indovinano insieme il tramonto di Silvio Berlusconi e l’incapacità di radicare il partito sul territorio: al contrario della Lega, che lo ha fatto in modo quasi scientifico; e ormai con ambizioni e proiezione nazionali.
La fotografia restituita dai 6,7 milioni chiamati alle urne ieri dice questo. È vero che 761 comuni, di cui 20 capoluoghi, sono un test parziale. E lo spoglio notturno potrebbe riservare ancora qualche sorpresa. Ma per chi, soprattutto la Lega, accarezza il sogno di capitalizzare in tempi non lunghi un’ascesa impensabile fino a sei mesi fa, ogni appuntamento diventa decisivo.
Viene letto come la conferma di una linea di tendenza e di una strategia che fa della sicurezza e della tolleranza zero contro l’immigrazione una bandiera; e la sventola in un’eterna campagna elettorale, stavolta usando il Viminale come piedistallo e amplificatore. E pazienza se si tratta di scelte che mettono in imbarazzo l’altro «contraente» del governo, il M5S.
Il Movimento è percorso da pulsioni contraddittorie; e diviso sull’atteggiamento da tenere. Tra il ministro Danilo Toninelli che ubbidisce a Salvini nel conflitto col governo di Malta su chi debba accogliere gli immigrati, e il presidente della Camera, Roberto Fico, in visita ai campi profughi, c’è una distanza vistosa: sebbene siano entrambi del M5S. Lo stesso Di Maio, vicepremier, sa che su questa linea il suo Movimento si può dividere; e che sul piano elettorale il radicalismo salviniano può eroderlo a destra. Basta vedere gli applausi che il resto del centrodestra, privo di una propria strategia, tributa al leader leghista.
Sono battimani di chi sogna un fronte unito tra FI, Lega e FDI, alle prossime Politiche: un ricompattamento che smentisca la frantumazione verificatasi nella formazione dell’esecutivo tra Di Maio e Salvini, con Conte premier. E traspare la volontà di assecondare il leader del Carroccio su una politica che al momento sembra pagare; e che potrebbe radicalizzarsi in vista delle Europee del 2019. Ma si indovina anche il timore che l’alleanza «contrattuale» del governo tra M5S e Lega possa diventare un modello, e alla lunga terremotare le giunte locali.